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La ceramica che cambia, nota d'arte di Elisa Castagnoli

Da Ellisse


Un'altra nota di Elisa Castagno
li su una manifestazione d'arte. Ribadisco qui la mia convinzione  che la poesia debba prestare attenzione non solo a sé stessa ma anche alle espressioni, recenti o meno, delle arti figurative, plastiche e performative, alle poetiche che suggeriscono e alle prospettive, anche concettuali e di linguaggio, che possono indicare.

“La ceramica che cambia” tra scultura, informale e contemporaneo...

(con Mimmo Paladino, Leoncillo, Lucio Fontana ecc. visto al MIC a Faenza)

“La ceramica che cambia” nella mostra organizzata dal MIC di Faenza segue l’evoluzione del lavoro scultoreo in terracotta dal secondo dopoguerra al presente; quale pratica scultorea essa viene fatta riconfluire a pieno titolo nel filone delle arti plastiche contemporanee liberandosi del proprio ruolo decorativo e ornamentale, dalle precedenti gerarchie di appartenenza e categoria. Diviene oggetto di sperimentazione e rinnovamento, parte integrante e una delle tante vie aperte dall’evoluzione della scultura moderna fino ai giorni nostri, frammista ai materiali più svariati, aperta a tecniche diverse dalla pittura all’installazione, infine, quale mezzo espressivo antichissimo è reinterpretata nel panorama multiforme e sfaccettato dell’arte contemporanea. Tale evoluzione viene anticipata, come mostra il percorso espositivo, da una grande personalità del rinnovamento scultoreo italiano, Arturo Martini, che negli anni ’40 riporta la scultura a un piano di figurazione realista e, insieme la investe di un nuovo potenziale espressivo. Su questo stessa via si esprimono altri artisti in opere diverse.

In “Cavallo Giallo” (Aligi Sassu, 1947) la materia è primitiva e esplosa, masticata e rigurgitata fuori, ribollente fino a toccare o anticipare dalla forma del suo ancora visibile contorno l’informale della sua primordiale derivazione. L'eruzione d’un impasto materico vivo accennato in una parvenza di figura come lava ribollente condensa in ocra scintillante nel riflesso smaltato della luce in colatura intenzionale dalle profondità della terra nella memoria d’una arcaica appartenenza. Nel suo grottesco darsi e disfarsi in uno stesso moto di definizione e sfinimento, di costruzione e sfasamento della figura nel colore, l’ocra avvicinandosi al marrone si trasmuta in giallo magma vulcanico, inarginabile rendendo il contorno massa appena riconoscibile.

“Antico guerriero su toro”(Gavino Tilocca, 1960) La figura appare sul punto di sollevare la lancia, ergere lo scudo in difesa e colpire il nemico in questa verticalità di linee tendenti verso l’alto. Pronto a scagliarsi contro, colpire in tensione, lo sguardo disumanizzato e macchinico, estremamente scavato in una sorta di maschera guerriera, proveniente dalla tradizione etrusca, in una sorta di patina ossidante, acquarellata in guizzi blu-argentei pesantemente deposta su se stessa. Ricoperta, infine da un'armatura rilucente, ramata in apparenza di ferro. La durezza refrattaria della ceramica è riportata, tuttavia, alla carne viva della figura, come voleva Martini, a una verità gridata fuori in linee tangenti, incidenti verso l’alto in quel punto tensivo di smalti e ossidi riflessata.

Altrove, un volto femminile (Saturni) affiora delineandosi nella forma d’un oncia in maiolica verdastra, acerba e scolorita nel riflesso attenuato in diluizione dalla pittura. La maschera-viso, la testa culminante nel cranio aperto dell’anfora, il collo sinuoso e parte del busto appaiono appena accennati. La figura trapela in questa particolare rigatura, scanalatura d'un viso allungato, apparendo a tratti dal substrato materico per casuale emergenza e in indissociabile unione con il fondo plastico sottostante.

La scultura ceramica attraversa l’epoca del neo-cubismo con produzioni improntate sul lavoro picassiano degli anni ‘50/’60 dove domina l’esplorazione della tecnica pittorica dalle vivide, rilucenti cromie su ceramica, infine la sperimentazione attraverso assemblaggi di materiali su forme tradizionali di maiolica.


Mimmo Paladino

“Dormiente ”(1998) in terracotta refrattaria di ingobbi e smalti coperto; disteso al contatto con l'arenaria fredda e sabbiosa riposa su questa duna di sabbia e acqua attingendo al sole della marina e al suolo fresco d'arenaria improntato di passi. La testa riempita di passi, di passi che dipartono dalla sabbia al cranio forato da un buco nero di proiettile, lui scarno rigenerandosi dormiente sulla sabbia matrice, il viso acerbo, inumano, oscurato, gli occhi socchiusi in un sonno d'immobilità e d' acque stagnanti.



Stigmate sulle mani sono date per ingobbi e acri verdi smaltati . Una grande creatura d’acqua, un animale acquatico enorme sopra di lui, sovrasta il suo profilo ergendosi testa e corpo, anonimo, inconoscibile, senza volto. Gli occhi sono buchi neri svuotati, incorporei, inumani e la sua pelle squamosa del dorso sovrasta il dormente, un’ apertura o lacerazione sulla superficie della sua schiena. Il colore di fondo di questa duna, ocra e porosa, monocroma e tracciata del profilo della figura sulla sabbia, l'impronta della medesima, poi, quell'adiacenza o continuità forzata che lega la creatura d'acqua, habillée d'eau, vestita d'acqua, al corpo di sabbia nel suo contatto al suolo granoso e avvolgente.

Lo strappo è improvvisa lacerazione sul tracciato del dorso, apertura sulla pelle irta dell'animale, varco inciso sullo strato di materia d'argilla e, insieme, proteiforme tentativo di sovrapporsi e inglobare da parte dell'animale l'umano, da parte della materia, la forma e la figura. Il cranio è aperto da un foro nero a lato, incisione e fessura, ma il luogo atemporale, d’oro e di sabbia dello spazio su cui è sospesa la figura, sulla quale sosta e si rigenera resta come il rinvio a uno spazio vagheggiato, un luogo primario e atemporale apparendo là come puro limite alla creazione in controluce a un’arcaica memoria.

Giosetta Fioroni, “Il mezzo fatato” (1998)

Una scala rossa sale verso l’alto, rilucente, fluida, ondulante nelle forme; il suo tronco rosso smaltato diparte verso l’ aperto, infinitamente altro dando su uno spazio-dimora senza tetto e senza barriere, rifugio dalla forma non-finita afferrato da una mano d’oro, forse divina. Il suo percorso d’ascesa verso l’alto resta un’ enigma senza risoluzione dove tale antro sospeso si dischiude come un teatrino delle meraviglie o un palazzo di carta velina, luccicante e dorata, apparente tuttavia, al primo colpo di vento divelto. Lo sguardo surrealista rivolto a una realtà immaginifica e fatata, liquefacente nelle sue forme, lascia il posto qui a un moto ascendente che aspira, sembra, a un assoluto più puro, a un altro tipo di infinito.


“Caravella” (Goffredo Gaeta) luccicante d’oro in ceramica riflessa, smaltata e ondulante dalle forme risplendenti dei vecchi velieri, dalle vele dispiegate, il vento a favore, sull’albero oscillante attraverso le onde mentre la base frammista ai riflessi dorati delle acque è vista con qualche guizzo di blu e smeraldo a prua, poi lungo il ponte scintillante nelle sembianze ondulatorie e quasi animate del volto d'una dea.

Luigi Ontani, “TrumeauAlato” (1997-2007)

Il suo scrigno alato o antro delle meraviglie è un oggetto performativo e teatrale per eccellenza, finemente smaltato e rifinito in oro e pittura in ceramica, finemente decorato e che qui assume le sembianze tutte umane dell’artista nelle diverse personalità che convivono in lui.



Stivaletti smaltati e piedi nudi, zampe di tigre o di rapace nella base, cassetti e antri segreti apribili come quelli dei piccoli secretaire dell’epoca monarchica e libertina francese finemente rifiniti in oro e ceramica dove si nascondevano pergamene o lettere manoscritte, sigilli e giuramenti, veleni d’amore o filtri di morte. Tale oggetto rispendente da boudoir del segreto appare decorato dai quadretti di Ontani auto-rappresentandosi in differenti posture, imposture o celebrazioni narcisistiche di sé: come Cristoforo Colombo esploratore impavido del mondo, poi riflesso attraverso i suoi libri riprodotti nella forma di volumi talmente scintillanti da apparire là in trompe-l’oil sul reale che uno sarebbe indotto ad aprirli, sfogliarli, leggervi attraverso per scoprire che sono solo simulacri intagliati in oro e ceramica, raffinate decorazioni intessute sul nulla. L’involucro svuotato d’una biblioteca inesistente appare così ricomposta: il Cavaliere inesistente di Calvino, le poesie di Baudelaire, la commedia "divina" di Dante, il teatro di Molière, gli scritti di Cesare Pavese e altro ancora. Mani, busto-trumeau librandosi verso l’alto si ricongiungono alla testa dell’artista, volando insieme ad essa con le due statuette di Dafne e Mercurio verso il proprio luogo alato. Tale oggetto del segreto ricompone, tiene insieme tutta la saggezza e il sapere del mondo ai suoi piedi, reale o lasciata solo i suoi esterni simboli, e la celebrazione d’un sé narcisistico, molteplice lui pure simulato in questo piccolo antro delle meraviglie, luogo d’attraversamento come d’Alice nello specchio, bijou-simulacro riflettente e performativo.

Nanni Valentini

La sua pittura in ceramica è la “Fantasia” d'una mente radiografata in qualche sogno ad occhi aperti: la fantasia d'una mente scomposta in diecimila posture, figure, affioramenti presenti fuori dal tempo e dallo spazio possibili. E' una mente che visualizza forme geometriche, sintesi d'elementi decorativi e non, figure inverosimili in uno sfolgorio di colori e forme rinate da linee e punti diversi: antri geometrici, manichini, scacchiere, patchwork di colori, stagni, laghi, pozzanghere e specchi d’acqua, oppure semplici macchie colorate e intrusioni di volti di tanto in tanto fra quelle.


L'informale e la ceramica in Italia...

Dagli anni ’50 fondamentale resterà per la ceramica la grande rivoluzione stilistica aperta dall’arte informale nel suo rinato approccio alla materia, nel ricorso al gesto accidentale, all’impulso segnico, nell’emergere della traccia o del segno nella creazione d’opera, in un ritorno, infine, primordiale all’impasto materico di cui la terra rossa d’argilla apparirà come componente scultorea prima. L’informale riflette da un punto di vista filosofico la mutata coscienza del presente in epoca post-moderna insieme al senso d’una rottura, ironico distacco e rivisitazione con la coscienza del poi rispetto alla continuità storica della modernità; è, allo stesso tempo, tale presente a imporsi nella sua urgenza vitalistica, nel gesto violento e immediato dell’action painting americano, nella sua capacità di rottura e rinnovamento estetico espressa dalle varie poetiche degli artisti informali. Pittura materica sostanzialmente non figurativa: tracce, chiazze, segni filiformi, matasse, grovigli, filamenti, macchie e grumi di colore, del segno allo stato puro, infine l’impasto denso, intriso dell’apporto d’altri materiali sono il più evidente manifestarsi della poetica dell’informale.

Attraverso le sculture dell'informale in ceramica...

E' una testa-montagna in rilievo in colatura di colore materico, granuloso e d’argilla (Enrico Bai)

E' materia in ceramica squagliata, lasciata fondere al calore estivo, come dolce dessert a poco a poco liquefatto nel viso distorto d’un espressione d’attesa.

E' Scultura-massa, massiccia nell’imporsi ineluttabile della sua forma primaria ed essenziale (Bertagnin).

Sono fogli di scrittura su ceramica, linee di versi incise su rotoli di papiri a sfidare la leggerezza del tempo e la fragilità della creta.

Sono tessuti, ragnatele e matasse; é la terra come luogo di poesia, l’essenzialità della terra evocata attraverso le sue zolle scolpite in Zauli.

Intagliato sulla creta il suolo è aperto da crepe irregolari su una terra incisa e dissecata di sale e d’acqua marina prosciugata e, in alcuni punti, ancora visibile in pozzanghere rilucenti e argentee (Cherchi).

Tronchi si ergono da una base nuda in “incontro d’inverno” , dove cortecce di bianche e grigie squame si frammistano a oscuranti vernici; la corteccia squamosa si distacca a stralci come massa mossa e voluminosa contro la materia dura, indelebile del tronco (Leoncillo Leonardi).


Il “Cane” di Zauli liquefatto in irosi guaiti schiuma lava ribollente di rabbia disfacendo contorni, linee e profili fino a riportarli alle forze del basso della materia. Singolare ergendosi, cumulo informe, materico d’animale organicamente visto.

Un albero liquefatto in tronco è aperto, scavato fino a renderci visibile la matrice disegnata dai suoi cerchi millenari; restano i residui materici della corteccia ai lati e il centro inciso del tronco mancante.

Una scala discende, linee a scacchiera color ambra, rosso rubino e cenere ossidata.

“Il ventre di Giona”(Rontini) è scavato e inciso simile all’interno d’una grande foglia, l’incavo d’un albero svuotato e ricoperto d’oro e d’ocra.

Pagine scritte, un totem-graffito, un volto graffiato;Un involucro è scavato come antro in terracotta “dove si racconta l’angelo”; un grande orecchio cosmico lo sovrasta dove si odono boati e echi dal mare (Valentini).

Impronte di foglie, disegni lievi del vento sulla sabbia (Lucietti); una meteorite precipitata dall’ altrove come fulminea scheggia appare conficcata nella terra per una punta affilata.

La pelle ispida, squamosa d’un serpente puntigliato di rosso la sera , lo scheletro inciso, argenteo brillante delle vertebre d’un uomo in platino e terzo fuoco; il “dado esploso” di Zauli, poi il “primario esploso”, esubero di materia in ceramica allo stato puro, fluida, espansiva, riflessa di smalti e vernici.

Lucio Fontana, ricerca materica, dimensione spaziale

“Ho preso una massa di gesso, gli ho dato una struttura approssimativa e gli ho gettato addosso del catrame. Mi interessava trovare una nuova strada, una strada che fosse tutta mia”. (sulla scultura “l’uomo nero", 1930). La vocazione alla materia in Fontana comincia ad avere il sopravvento dal ’36 quando attratto dalle potenzialità della terracotta scolpita vi lavora assiduamente divenendo uno dei protagonisti del rinnovamento della ceramica contemporanea. Modella la terra nell’apparenza cromatica, luminosa e quasi astratta della sua scultura ma con un richiamo organico, sempre presente e quasi magmatico alla materia. Dalla fine degli anni ’30 si fa anticipatore dei motivi dell’Informale europeo dominanti dal secondo dopoguerra. In una dichiarazione-manifesto del 1939 “la mia ceramica” afferma:

“La mia forma plastica non è mai dissociata dal colore, colore e forma indissolubili nati da un’identità necessaria. La materia era attraente, potevo modellare un fondo sottomarino, una statua o un mazzo di capelli ..Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore. Si parlò di ceramiche primordiali. La materia era terremotata ma ferma”.


L’argilla unita ad altre componenti, esuberante, vitale e irriflessa si congiunge alla ricerca luministica e cromatica sulla maiolica amalgamata fino alla sua versione definitiva nel passaggio attraverso il fuoco. In questo modo l’opera in ceramica è liberata dal ruolo statico d’oggetto decorativo , dalla sua gravità, dal peso che questa aveva fatalmente assunto nella tradizione. L’artista lavora sull’impasto materico e lo trascende attraverso una ricerca cromatica, sulla luce e sulle possibilità scultoree aperte dal rapporto tra oggetto e spazio, tra lavoro artistico e dimensione concettuale dell’opera. A partire dal ‘47 al ritorno in Italia nel rinnovato clima artistico milanese del dopoguerra Fontana inaugura il nuovo concetto di “scultura spaziale” cui seguiranno i successivi Manifesti definendo il movimento Spazialista a livello europeo. Attraverso la serie dei “buchi” in campo pittorico la tela viene tagliata come la superficie del quadro implicando quelle forze che come molecole, particelle, raggi o elettroni liberi premono contro la superficie statica, piana del quadro, ne rompono la bidimensionalità e mostrano lo spazio con una dimensione pura, assoluta che tende a una propria infinità e dove le forme fluttuano in movimento, dove, infine, la materia o, al contrario, la sua assenza, la sua sottrazione disegnano concretamente questa altra idea di spazialità attraverso l’opera.

L’espressione nuova dell’arte spaziale di Fontana nei “concetti spaziali forati” su tela, nella scultura in ceramica e il suo nuovo modo di pensare lo spazio a stretto contatto con l’opera oltre la bidimensionalità della tela, l’inclusione infine del vuoto in esso ne fanno un grandioso rinnovatore e precursore nei primi anni ‘50.


“Sfere” nere in terracotta del ’57 ossidate e smaltate in grigio e oro sono segnate da perforazioni e lacerazioni. Forate, traforate e intagliate sulla parte alta della terracotta smaltata. Una inedita dimensione spaziale si lascia intravvedere attraverso questo gesto di rottura, di apertura che travalica il confine tra l'oggetto scolpito e una nozione astratta, asettica di spazio dove le cose apparirebbero immote, eternamente date e inanimate. Cosa accade alla forma se lasciata al gesto istintuale, al segno se affidato al suo sostrato materico, allo spazio se modificato dalla presenza degli oggetti? Il gesto assoluto di lacerazione su una materia statica, impenetrabile come quella della ceramica ossidata nelle sfere tende a modificare lo spazio, a mostrarcelo in una sua dimensione di infinità, di apertura all’indeterminato, ma anche nel vuoto che esso rivela attraverso la fenditura. Tale spazio, in ogni caso, aspira a ricongiungersi nell’ottica spazialista a uno “dimensione assoluta”, primaria e atemporale o comunque antecedente al flusso storico determinato. Le perforazioni, i buchi sulle sfere dell’ocra e del grigio smaltati paradossalmente nella loro ritmica precisa e definita non creano rottura ma continuità dallo spazio reale o apparente tale a questo altro spazio evocato, immaginabile sia come limite filosofico che come atto di fede in un infinito intravisto partendo dalla materia per trascenderla definitivamente.


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