di Francesco Trupia
L’iniziale vittoria di Pablo Fajardo, l’avvocato che ha mise in ginocchio la già rinominata “Chevron-Toxico”, conferma i pregiudizi statunitensi su di un’area la cui fruibilità è asservita al mero soddisfacimento di interessi esclusivamente economici. I danni ambientali, una volta concluse le operazioni di estrazione petrolifera ed aver fruttato copiosi introiti economici, non sarebbero infatti rientrati tra le preoccupazioni aziendali di Chevron. Attraverso la sentenza, emessa a settembre, la Corte dell’Aja aveva evitato l’ennesimo “scivolone” dei legali della Texaco che rischiavano di veder confermata la sentenza del tribunale ecuadoriano dopo aver volutamente trasferito il contenzioso proprio nel Paese andino. Il disonesto obiettivo era quello di sfruttare i carenti servizi giudiziari presenti in Ecuador a proprio favore ed abbassare i riflettori del mondo sugli scempi protratti in diverse zone amazzoniche. [2] Inoltre, pochi giorni prima della sentenza del 14 febbraio, sempre i legali della Texaco accusarono dapprima la Petroecuador, colpevole di aver commesso lei i danni ambientali, ed in seguito anche gli indigeni attraverso l’appello alla legge federale statunitense Influenced and Corrupt Organizations, che – qualora fosse stata presa in considerazione – avrebbe considerato le sigle ambientaliste un’organizzazione criminale con a capo proprio Pablo Fajardo. [3]
La diatriba processuale tra il governo ecuadoriano e la multinazionale non può – e non deve – essere analizzata come uno dei tanti conflitti di interessi tra le parti in sede giudiziaria. Una semplice analisi geopolitica potrebbe spiegare la vicenda come l’ennesimo conflitto tra un Sud del mondo in via di sviluppo ed un Nord incapace di prendere coscienza dei propri errori. In realtà, qualora alla fine delle arringhe fosse confermata l’ultima sentenza dell’Aja – che di fatto ha ribaltato quella del tribunale di Sucumbíos – lo scenario globale non potrebbe nascondere il carattere tipicamente “occidentale” del diritto internazionale. La decisione del risarcimento danni del 14 febbraio del 2010 era stata posta in essere dal tribunale ecuadoriano grazie all’applicazione delle tipicità giuridiche del derecho etnico, especiales e de inclusíon che la Costituzione dell’Ecuador garantisce per la salvaguardia dei diritti della Pachamama (Madre Terra) insieme ai suoi cicli vitali. Dinnanzi a tali nuove prospettive giuridiche, realizzate grazie al volere popolare con l’utilizzo del referendum (2009), c’è chi ipotizza una “fine per il diritto” per il modo in cui quest’ultimo è stato conosciuto ed applicato fin’oggi. Proprio come nel caso della vicenda Texaco vs Ecuador, la decisione della Corte dell’Aja di settembre trascurerebbe i danni ambientali protratti dalla corporation trasformando in “illegittima” la sentenza del tribunale di Sucumbíos. [4] Ancora una volta, si sorvolerebbe sull’aumento del tasso di mortalità (soprattutto quella infantile), delle malformazioni congenite, del provato inquinamento acquifero e boschivo denunciato dal Frente de Difesa Amazonía che difende tutte quelle popolazioni meno ascoltate. Sulla scia di tali considerazioni, appaiono provocatorie le richieste di rispetto dei diritti indigeni del Ministro degli Esteri ecuadoriano Ricardo Patiño nell’ultima sessione del Consiglio per i Diritti Umani presso le Nazioni Unite.
L’intera storia dell’America Latina è stata costantemente contrassegnata dalle numerose volontà politiche occidentali aventi l’obiettivo la graduale fuoriuscita del Continente dallo scenario terzomondista. Gli Stati nazionali sudamericani hanno quindi consegnato il proprio landscapes a teorie e prassi economico-strategiche mai realmente vincenti e con obiettivi irraggiungibili. La recente esperienza paraguayana in merito alla coltivazione della soia si presta molto bene come sintesi generale della situazione: la coltivazione intensiva sebbene abbia condotto il Paese al quarto posto al mondo come produttore del legume, ha però arrecato inestimabili danni ambientali. L’economia, autoproclamatasi regina delle scienze sociali anche in America Latina, non ha mai saputo adattarsi al tipico paradigma fortemente ecologista del Continente che si oppone al concetto di benessere neoliberale tipico dell’Occidente, il cui fulcro è l’individuo e l’individualismo alienante dell’ʻavereʼ. Lo studioso Edward Goldsmith afferma che la strada verso nuove politiche ambientaliste dovrebbe essere solcata «dalla visione del mondo che hanno le società indigene aventi l’obiettivo di una società ecologica che deve essere la preservazione della situazione critica del mondo naturale».
Fin dagli anni Settanta le teorie neofunzionaliste sostennero che nelle relazioni internazionali molte funzioni statali potessero essere trasferite nelle agende setting di grandi corporations e organizzazioni in grado di sostituirsi all’attività sovrana degli Stati. Tale fenomeno, descritto da alcuni critici odierni come il passaggio ad un corporate take-over, caratterizza l’attuale scenario globale che legittima l’attività delle numerose Ong operanti nei vari settori della politica internazionale: giustizia, ecologia, violazione di diritti umani etc. Le importanti normative internazionali, a volte capaci di imporre adattamenti precisi all’interno degli ordinamenti giuridici statali, confermerebbero il quadro dei neofunzionalisti. Il Sud America, divenuto interessante laboratorio politico negli ultimi decenni, conferma questo tipo di analisi. La possibile vittoria di dicembre contro la Chevron-Texaco, davanti la Corte Penale Internazionale, rappresenterebbe per gli indigeni dell’Ecuador – e di tutto il Sud America e non solo – l’ennesimo passo in avanti verso maggiori riconoscimenti sia in ambito nazionale che sovranazionale. Le critiche conseguenze di una tale fattispecie sono state anticipate dal filosofo Will Kymlicka che, sostenendo da anni le cause di indigeni, aborigeni e minoranze in un ottica multiculturale, ha anticipato la crisi del sistema internazionale teorizzando il collasso della più celebre creazione giuspolitica occidentale: lo Stato. Quest’ultimo – afferma sempre Kymlicka – costruito affinché emanasse la legge, è un “corpo estraneo” per tutti quei soggetti, come i popoli indigeni ad esempio, che lo hanno storicamente “subito” insieme alla legge che da esso è stata emanata. [5] Nel Continente Indio-latino la presenza indigena rappresenta la maggioranza della popolazione ed in alcuni Paesi, come in Ecuador e Bolivia, supera il 70%. Il concetto della cittadinanza legato a quello della nazionalità, quindi dello Stato-Nazione, viene così surclassato dalla più antica appartenenza ad una delle popolazioni locali (Quechua, Aymara, Nambikwara etc) che vivono da secoli in simbiosi con la Madre Terra. Sebbene si sia fatto molto in ambito internazionale affinché tali situazioni non provochino effetti collaterali, nonostante tutto il sistema potrebbe non riuscire ad evitare confusioni e possibili collassi. [6] Uno degli aspetti che pone maggiormente in allerta gli Stati nazionali in correlazione ad un sempre maggiore riconoscimento giuridico e politico di tali categorie, è quello legato alla salvaguardia della propria sovranità. E’ chiaro che proprio tale minaccia deve essere reale e concreta, come ad esempio una minaccia di invasione, guerra o attacco da parte di una potenza esterna. Le fattispecie hanno un senso laddove si verifichi la presenza di popoli indigeni – come anche minoranze o aborigeni – in terre situate lungo le frontiere in cui la comunità occupa in parte il territorio di un Paese ed in parte quello di uno confinate. In altri casi, invece, popoli indigeni che ignorano l’esistenza della frontiera si rapportano indifferentemente con i due Stati nazionali poiché non li riconoscono come enti a cui sottomettersi. Tipico esempio è quello del popolo “brasiliano” dei Nambikwara che abita un territorio in modo tradizionale nella regione amazzonica dello Stato del Mato Grosso, occupato al suo interno da altri popoli indigeni come gli Indiani Paressi e gli Iranşe. Se si considera che tale Stato federale confina con la Bolivia (altro Paese con una cospicua presenza indigena), che tale territorio è uno dei meno conosciuti della Terra e che la collettività che lo abita non è mai stata sottoposta a censimento, il problema legato al controllo delle frontiere per il governo brasiliano (che combaciano inoltre con quelle del Mato Grosso) è di fondamentale importanza.
Qualora la Corte Penale Internazionale ribadisse la sentenza del 2010, ossia il risarcimento per i danni provocati dalla Texaco in un ambiente “ancestrale”, inviolabile ed inalienabile sia dallo Stato che da qualsiasi corporation, le istanze indigene rientrerebbero anche nella casistica della giurisprudenza internazionale. Ciò bloccherebbe anche il piano di sviluppo petrolifero del Presidente Correa che, conformemente all’opposizione protratta alla Chevron-Texaco, si è visto bloccato dalle critiche di molte Ong ambientaliste. Una sentenza che potrebbe concretamente porre in essere la crisi dello Stato teorizzato da Kymlicka. Quest’ultimo, inteso come fictio iuris, avente tre particolari caratteristiche affinché sia riconosciuto dalle norme di diritto internazionale, ossia sovranità, popolo e territorio delimitato da confini, sarebbe spodestato da un diritto “ctonio” [7] che rifiuta tutti quei concetti giuridici con i quali lo Stato moderno ha trovato storicamente affermazione. Il riconoscimento della Corte darebbe una nuova spinta a tutte le minoranze nazionali, come ad esempio quelle dell’Est Europa o degli aborigeni presenti in Africa, pronti ad organizzare le medesime istanze rivendicate ed in seguito riconosciute ai popoli dell’America Latina. Lo scenario delle relazioni internazionali, in cui gli Stati sono posti in posizione gladiatoria, regolato dalle norme di diritto internazionale, verrebbe così completamente sconvolto.
Lungi dal voler affermare con la forza le proprie rivendicazioni, i riconoscimenti giuridici concessi in ambito internazionale ai popoli del Sud America potrebbero virare da una possibile crisi dello “scacchiere” composto dagli Stati ad un percorso di cross-fertilization tra varie regioni del mondo. Questa nuova fioritura di strutture giuridiche, come la definì Schumpeter nel 1970, ha condotto sia una duratura lotta contro le ingiustizie protratte alla Madre Terra, ma anche aperto la strada verso un preciso obiettivo: affermare un bien estar colectivo indicante nuove possibilità di concepimento ed organizzazione dello scenario internazionale. In un mondo in cui la distanza locale-globale è oramai azzerata, il fenomeno multinazionale dell’interculturalizzar – promosso in Ecuador nel 2009 con la nuova Costituzione – trova in molti esperimenti effettuati la conferma del suo possibile successo futuro. All’interno di alcune procedure del diritto penale, ad esempio, sono stati molti i tribunali occidentali che hanno utilizzato tipiche categorie giuridiche dei popoli ctoni come il “cerchio della sentenza”, definito anche “cerchio della composizione”, tipico delle civiltà del Sud America, in cui la comunità si raduna in cerchio per decidere la sanzione o la riabilitazione.
* Francesco Trupia è laureando in Politica e Relazioni Internazionali (Università di Catania)
[1] Con la sentenza del febbraio 2010, che condannava la multinazionale statunitense al risarcimento di circa diciotto miliardi di dollari, si ufficializza il più grande risarcimento per danni ambientali mai posto in essere.
[2] La richiesta di risarcimento venne presentata dapprima alla Corte del tribunale di New York, negli Usa.
[3] Il fratello dell’avv. Fajardo, Nillian Fajardo Pablo, fu torturato e poi ucciso durante le varie udienze del processo. L’avvocato disse che non aveva le prove che dietro l’omicidio del fratello ci fosse la Chevron-Texaco, sebbene abbia anche ribadito che possibilità verificabili potrebbero anche esserci.
[4] In Africa, infatti, durante un evento di promozione dei Diritti Umani promosso dalle Nazioni Unite, le personalità locali risposero che «the human rights are monsters», equiparando tali diritti al tipico strumento occidentale utilizzato in modo funzionale e tornacondistico. In merito a tale argomento sono interessanti gli scritti di P. Rossi La fine del diritto? e U. Mattei e L. Nader, Saccheggio. Quando il diritto è illegale.
[5] L’Istituto Socio-Ambiental e l’Istituto Brasiliero de Geografia e Estatística afferma che in Brasile vi sono 225 popoli in 580 aree, vale a dire qualcosa come 180 milioni di ettari ed una popolazione che calcola dai 600 mila ad 1 milioni di indios, a cui bisogna aggiungere gli isolados, ossia popoli di cui si percepisce solo l’esistenza, calcolabili dai 3 a 5 milioni di unità. Ultimamente, è stata resa nota la volontà di un censimento dell’intera Amazzonia non solo riguardante le migliaia di specie di flora e fauna presenti, ma anche di popoli e comunità indigene ancora sconosciute e non censite.
[6] La Convenzione n.169 dell’OIL ha definito “popoli tribali” quei popoli il cui status è disciplinato in tutto o in parte da propri usi, tradizioni, leggi e regolamentazioni speciali; i “popoli indigeni” invece sono quei popoli che discendono dalle comunità che abitavano una determinata area geografica su cui nacque uno Stato come conseguenza della colonizzazione europea.
[7] Edward Goldsmith e Patrick Glenn chiamano una precisa tradizione “ctonia” (dal greco kthon, kthnos = terra) per indicare tutte quelle concezioni normative di quei popoli che vivono in stretta armonia con la Terra ed i suoi cicli naturali.
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