La crescita cinese sta rallentando. L’economia del dragone, protagonista assoluta dell’ultimo ventennio, sta vistosamente calando a causa del suo squilibrio intrinseco tra investimenti e consumi.
Secondo i dati del secondo trimestre di quest’anno, il Pil registra un aumento del 7,5% su base annua a causa della debole domanda estera che pesa sulla produzione e sugli investimenti. Nel primo trimestre la crescita del prodotto interno lordo era stata del 7,7%. I dati attuali, in linea con le attese degli analisti, visti in un’ottica di medio periodo, evidenziano come l’economia cinese abbia registrato un rallentamento in nove degli ultimi dieci trimestri.
A fronte di questo rallentamento, all’ultima assemblea annuale del Partito comunista cinese, l’ormai ex premier Wen Jiabao pose al centro della politica economica la crescita dei consumi interni. Questo sarebbe stato il punto di forza di una strategia economica avente come obiettivo di crescita nel 2013 appunto l’aumento del 7,5%, livello che la Cina aveva superato appena l’anno scorso quando il Pil è cresciuto del 7,8%, la minor crescita degli ultimi 13 anni.
Sui problemi strutturali dell’economia cinese che stanno lentamente affiorando, ha dedicato recentemente un articolo l’economista premio Nobel Paul Krugman. Krugman partendo dallo squilibrio tra investimenti e consumi, cerca di dare una risposta alla concomitanza di bassi consumi e massicci investimenti senza “inciampare” in rendimenti decrescenti: “La storia più sensata per me, tuttavia, si basa su una vecchia intuizione dell’economista W. Arthur Lewis, secondo il quale i paesi nei primi stadi dello sviluppo economico in genere hanno un piccolo settore moderno affianco ad un ampio settore tradizionale che contiene enormi quantità di “lavoro in eccesso” – contadini sottoccupati che al massimo danno un contributo marginale alla produzione economica complessiva.”
Questa condizione di ampia disponibilità di manodopera a basso costo produce due effetti: “In primo luogo, per un po’ di tempo tali paesi possono investire pesantemente in nuove fabbriche, in costruzioni, e così via, senza incorrere in rendimenti decrescenti, perché possono andare avanti attirando nuova manodopera dalle campagne. In secondo luogo, la concorrenza di questo esercito di riserva di lavoratori mantiene bassi i salari anche se l’economia cresce e diventa più ricca. In effetti, il fatto principale che tiene compressi i consumi cinesi sembra essere che le famiglie cinesi non vedono affatto la maggior parte del reddito generato dalla crescita economica del paese. Parte di tali redditi affluisce ad una élite politica; ma una gran parte resta semplicemente concentrata nelle imprese, molte delle quali di proprietà statale.”
L’analisi del premio Nobel è corretta, negli ultimi 30 anni con i forti investimenti nell’industria e il traino dell’export, la Cina è diventata la seconda maggiore economia mondiale. Ma, a dispetto di questo risultato, il Paese è ancora a medio reddito e il 13% della popolazione vive con meno di 1,25 dollari al giorno secondo quanto stimato dalle Nazioni Unite. Il reddito medio dei cinesi che vivono in zone urbane è di circa 3.500 dollari all’anno e conseguenza diretta sono i livelli molto bassi di consumo interno.
Come provato dal programma dell’ex premier Wen Jiabao questo sistema non è più applicabile nell’odierna realtà economica cinese. Con la continua crescita della classe media e l’aumento dei salari, a detta di Krugman: “l’economia cinese si trova improvvisamente di fronte alla necessità di un drastico “riequilibrio” – l’espressione tipica del momento. Gli investimenti ora danno rendimenti bruscamente decrescenti e stanno calando drasticamente, qualsiasi cosa faccia il governo; la spesa dei consumatori deve aumentare drammaticamente per compensare. La questione è se questo può accadere abbastanza velocemente da evitare una brutta crisi.E la risposta sembra, sempre più, essere no. La necessità del riequilibrio è stata evidente per anni, ma la Cina ha continuato a rimandare i cambiamenti necessari, stimolando l’economia attraverso il cambio sottovalutato e inondandola di credito a basso costo.”
Tuttavia, sostenere che il piano per la crescita dei consumi segnerà la fine del boom degli investimenti potrebbe essere prematuro, per due ragioni. In primo luogo, il governo di Pechino punta molto sul processo di urbanizzazione, che rimarrà oggetto di forti programmi d’investimento; attualmente poco più del 30% della popolazione cinese è urbanizzata, ma le autorità hanno annunciato un obiettivo del 60% da raggiungere entro il 2020. Inoltre, gli investimenti rimangono il modo più rapido ed efficace a disposizione delle autorità per evitare un rapido deterioramento ciclico. Quindi, anche se la revisione al ribasso dell’obiettivo di crescita ha dimostrato che è stato accettato il fatto che i tassi di crescita sono destinati a scendere, un declino più rapido continuerà a essere contrastato con misure di stimolo per sostenere l’economia e prevenire disordini sociali.
A livello economico globale, conclude Krugman: “in tempi normali, il mondo potrebbe probabilmente affrontare bene i problemi della Cina. Purtroppo, questi non sono tempi normali: la Cina sta colpendo il suo punto di Lewis nello stesso tempo in cui le economie occidentali stanno vivendo il loro “momento Minsky”, il punto in cui i mutuatari privati sovraesposti cercano tutti di tirarsi indietro contemporaneamente, e così facendo provocano un crollo generale. I nuovi problemi della Cina sono l’ultima cosa di cui avevamo bisogno.”