Orbene, a parte la verifica di come siano riusciti a suo tempo ad aggirare il blocco europeo dei nuovi impianti (temo ne siano esentati), come italiano ed erede dell’antica Roma, il sussiegoso giornalista avrebbe potuto ricordare che le prime viti le portarono in Britannia le legioni romane all’epoca di Adriano, quello del famoso Vallo costruito a ridosso della Caledonia (l’attuale Scozia) nel II sec. d. C.
Fu un’emozione, infatti, anni fa a ridosso della City, sentire Miss Andrews del Wine and Spirit Education Trust enfatizzare ad un gruppo di operatori trentini le origini romane dei loro vini, cosicché la successiva degustazione risultò più rispettosa dei British wine di quanto avrebbero meritato.
Dopo tutto, come Trento appare sullo stesso meridiano di Digione – giusto lo studio del dott. Claudio Ajelli, già Gran Maestro della Confraternita della Vite e del Vino, che dimostrò l’analogia pedo-climatica della Borgogna col Trentino al fine di avvalorarne la coltivazione del Pinot nero – così anche Londra è allineata a Reno e Mosella. Il resto lo fa la corrente del golfo che si insinua anche nella valle del Tamigi.
La storia della coltivazione della vite in Inghilterra si rifà ad origini lontanissime. Sebbene l’isola fosse stata invasa da Cesare nel 55 a.C. ed effettivamente conquistata dall’imperatore Claudio nel 43 d.C., solo nel 280 Probo Marco Aurelio darà il permesso di coltivare la vite in quella lontana marca.
Il venerabile Beda nella sua “Storia ecclesiastica del popolo inglese” del 731 fa menzione delle uve prodotte nella regione, mentre Re Alfredo il Grande, durante il suo regno che durerà fino all’899, adottò le prime sanzioni per i danni causati ai vigneti.
L’estensione capillare si verificò però nel IX secolo allorché la Chiesa introdusse il vino nel rito. Esistono altre conferme a tali specializzazioni agricole. Per esempio il Domesday Book, l’inventario delle proprietà inglesi, fatto redigere da Guglielmo I nel 1086, cita dettagli di 38 vigneti nel sud del paese.
La produzione di vino subirà comunque una serie di contraccolpi a partire dal periodo normanno, quando Enrico II d’Inghilterra sposò Eleonora d’Aquitania che portò in dote il ducato omonimo.
Da quella regione, conosciuta oggi come Bordeaux, un fiume di vino a basso prezzo, per lo più il rosso e leggero Claret, invase il mercato inglese e tale esportazione continuò sin oltre il 1451 allorché il Bordolese cessò di far parte della corona britannica. Tra queste due date, la diffusione della peste bubbonica nel 1348 che ucciderà metà della popolazione, portò grave detrimento ad una coltivazione che richiedeva molta mano d’opera.
Ma il colpo decisivo si ebbe nel 1529 con lo smantellamento dei monasteri, deciso da Enrico VIII dopo la rottura con la Chiesa cattolica: notoriamente ad ogni monastero situato in zone climatiche adatte, corrispondeva un vigneto. Seguì un lungo periodo di stagnazione, interrotto soltanto nel XVI secolo quando diventò di moda tra i grandi proprietari terrieri farsi il vino. Come oggi.
Le poche vigne rimaste fino alla prima guerra mondiale vennero, anche in quella fase, penalizzate dalla penuria di zucchero da aggiungere al mosto per aumentare la gradazione alcolica. Il revival si ebbe negli anni cinquanta quando si incominciarono ad importare in Gran Bretagna ibridi di vitigni adatti ad un clima continentale, sperimentati negli istituti di ricerca agraria francesi e tedeschi.
Oggi, 400 vigneti hanno riportato la superficie vitata all’estensione massima raggiunta nel IV sec. quando se ne andarono i Romani, con una produzione di 4 milioni di bottiglie consumate in parte da inglesi orgogliosi ed in parte anche esportate su diversi mercati.