La corsa al Quirinale: scenari e prospettive

Creato il 13 aprile 2013 da Informazionescorretta

di Andrea Fais

È cominciata ufficialmente la competizione per l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Stante la natura parlamentare del nostro sistema di rappresentanza, il presidente della Repubblica è eletto direttamente dai membri delle due Camere del Parlamento riuniti in seduta comune, ai quali si aggiungeranno per l’occasione tre delegati per ogni regione appositamente scelti dal rispettivo Consiglio Regionale, ad eccezione della Valle d’Aosta che ha diritto di inviarne uno solo. Malgrado l’Italia resti una repubblica parlamentare e sia stata strutturata sulla base di una rete di “pesi e contrappesi” costituzionali che distribuissero i poteri dello Stato verso un numero di istituti maggiore rispetto a quanto avviene nei sistemi monarchici costituzionali (Gran Bretagna, Olanda o Spagna) e nei sistemi presidenziali o semipresidenziali (Stati Uniti, Francia o Federazione Russa), negli ultimi anni i poteri del Capo dello Stato hanno assunto una configurazione per certi aspetti inedita.

Ovviamente questi poteri non sono mai stati ufficialmente modificati da alcuna riforma costituzionale sul tema, tuttavia nel settennato di Giorgio Napolitano si è osservato come durante quei momenti critici di fronte ai quali il governo (che resta teoricamente la massima rappresentanza del potere esecutivo in Italia) si è trovato in serissima difficoltà o addirittura nell’impossibilità a procedere in accordo al suo mandato, il presidente della Repubblica ha de facto gestito la situazione, assumendo personalmente l’impegno di rassicurare gli interlocutori stranieri, le strutture internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Nazioni Unite) o sovranazionali (Unione Europea e NATO) nelle quali l’Italia è integrata e addirittura quei soggetti non-governativi divenuti giocoforza quasi-vincolanti nel quadro recente dei mercati internazionali (agenzie di rating). Del resto, l’articolo 87 della Costituzione stabilisce in modo evidente i notevoli margini di manovra di cui il presidente dispone, in quanto rappresentante dell’unità nazionale e prima carica dello Stato:
Invio di messaggi alle Camere
Indizione delle elezioni per la formazione delle nuove Camere
Autorizzazione della presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa
Promulgazione delle leggi ed emanazione dei decreti aventi valore di legge e dei regolamenti
Indizione dei referendum popolari
Nomina dei funzionari dello Stato nei casi indicati dalla legge
Accreditamento e ricevimento dei rappresentanti diplomatici
Ratifica dei trattati internazionali previa, quando occorra (ma solo in quel caso, nda), l’autorizzazione delle Camere
Comando delle Forze Armate
Direzione del Consiglio Supremo di Difesa
Dichiarazione dello stato di guerra deliberato dalle Camere
Direzione del Consiglio Superiore della Magistratura
Concessione della grazia o commutazione delle pene
Conferimento delle onorificenze della Repubblica

Sulla carta, dunque, i poteri in materia di politica estera e difensiva non permettono di separare con nettezza e precisione tutti i limiti tra l’azione del governo e il ruolo del presidente. È altrettanto vero, però, che fin’ora nella storia repubblicana, stante l’adesione quasi immediata del nostro Paese alla NATO, l’attività estera aveva per lo più coinvolto i massimi rappresentanti del potere esecutivo, ovvero il Consiglio dei Ministri ed il suo presidente (che nella prassi giornalistica viene spesso indicato con la formula del cosiddetto “primo ministro”, una figura in realtà inesistente nel nostro Paese, dove il capo del governo è al contrario un primus inter pares con poteri più limitati rispetto al premier di tradizione anglosassone).

Negli ultimi due anni, invece, il Capo dello Stato ha esercitato un ruolo molto meno passivo in relazione ai temi dirimenti della politica internazionale e dell’economia mondiale. Durante l’esplosione della cosiddetta “primavera araba” e in particolare dopo l’avvio della guerra civile in Libia, il cosiddetto potere di esternazione del presidente ha costituito una fonte di valutazione dal fortissimo impatto, addirittura capace di sorpassare il parere del governo Berlusconi, rimasto in attesa di fronte al susseguirsi degli eventi per osservare con meno emotività l’evoluzione del quadro politico nel Paese maghrebino. Un crescendo di tensioni ed un consequenziale intervento militare esterno da parte della NATO avrebbero infatti compromesso il ruolo dell’Italia in Libia e vanificato il frutto di anni di elaborata diplomazia e di cooperazione economica tra le più importanti aziende strategiche semistatali del nostro Paese (ENI, ENEL e Finmeccanica) e la controparte libica. Tuttavia, Napolitano tuonò: “Non possiamo restare indifferenti alle repressioni”.

Purtroppo la sua intuizione, appoggiata da tutta la sinistra istituzionale (con il Partito Democratico, l’Italia dei Valori e SeL in prima linea), si rivelò fondamentalmente errata, dal momento che i fatti avrebbero poco più tardi evidenziato le pericolose connivenze tra i “ribelli” libici e la rete terroristica di al-Qaeda, costata la vita persino al diplomatico nordamericano Chris Stevens, analogamente a quanto sta avvenendo in Siria, dove i salafiti del fronte di al-Nusra hanno ormai egemonizzato il cosiddetto Esercito Libero Siriano. In quella fase concitata, durante un comizio del suo partito, Nichi Vendola ringraziò ufficialmente il presidente Giorgio Napolitano per “aver raccontato un’altra Italia, amica del popolo libico e nemica di Gheddafi”.

L’abbaglio ideologico della “primavera araba”, il coinvolgimento in un’aggressione militare non autorizzata (la risoluzione n. 1973 dell’ONU si era limitata semplicemente a stabilire una zona di non-sorvolo sulla Libia) e le gravi ripercussioni per l’economia italiana non hanno però messo in discussione la solida alleanza tra Washington e Roma, tanto che Napolitano ha per ben tre volte fatto visita negli Stati Uniti dal 2012 ad oggi. Nell’ultimo incontro avuto con Obama alla Casa Bianca il 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato ha discusso delle imminenti elezioni politiche italiane, ha ricordato all’interlocutore statunitense i “meriti” del percorso di “risanamento finanziario” condotto dal governo tecnico guidato da Mario Monti, rispetto al quale il presidente statunitense si è augurato una continuità anche dopo il voto del 24-25 febbraio, nel segno di una più ampia integrazione del Continente Europeo all’interno di una prospettiva che preveda la definizione di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Napolitano ha concluso emblematicamente, affermando: «Ho avuto la prova che questo presidente non è affatto interessato solo all’area del Pacifico».

Insomma, Napolitano non soltanto è andato ben al di là del semplice protocollo formale imposto dalla diplomazia ma ha anche svolto un ruolo-chiave nella determinazione delle scelte più recenti del nostro Paese in campo internazionale. Già nel settembre 2008 aveva ricordato che dinnanzi allo scetticismo verso l’integrazione europea era necessario rispondere con un maggior attivismo in politica estera, lodando la comunione d’intenti espressa dal Consiglio Europeo in relazione alla crisi russo-georgiana dei mesi precedenti. Secondo alcuni osservatori, quella per la politica estera è una predilezione personale che l’ex migliorista coltiva sin dai tempi della militanza nel PCI. In passato Henry Kissinger definì Napolitano con l’esemplificativa formula del “mio comunista preferito”, in riferimento ai vari viaggi che dal 1978 in poi l’attuale Capo dello Stato effettuò negli Stati Uniti in qualità di “ambasciatore” del nuovo PCI post-togliattiano, allontanatosi da Mosca e riposizionato da Berlinguer lungo un percorso di adeguamento allo status quo e di sostanziale adesione al campo atlantico.

Insomma, la passione personale di Giorgio Napolitano per i temi internazionali è senz’altro un elemento che ha giocato un ruolo importante in questo settennato presidenziale. Eppure il presidente potrebbe aver aperto un nuovo corso non scritto della nostra politica nazionale che, nella consuetudine (altra modalità rigorosamente anglosassone), abitui i cittadini a percepire il Quirinale come un’istituzione legittimata a svolgere un ruolo sempre più attivo nella determinazione dell’indirizzo economico e geopolitico del Paese. Non sembra un caso che tra i principali nomi considerati potenzialmente in gara per l’elezione del nuovo presidente siano spuntati quelli di Massimo D’Alema, Emma Bonino, Giuliano Amato e Romano Prodi, quattro esponenti politici profondamente impegnati nel campo della politica internazionale.

Massimo D’Alema è stato a lungo deputato per il PCI, il PDS e i DS. Diventò presidente del Consiglio per poco tempo (fra l’ottobre del 1998 e il dicembre del 1999) ma fece in tempo ad autorizzare la partecipazione italiana alla disastrosa operazione Allied Forces condotta dalla NATO in Serbia nella primavera del 1999. Ha poi ottenuto la direzione del Ministero degli Esteri nel governo Prodi II (tra il maggio 2006 e il gennaio 2008). Fuori dagli incarichi di governo, ha ricoperto funzioni estremamente importanti tra le quali la presidenza, tutt’ora in carica, del COPASIR (Comitato Parlamentare di Controllo sui Servizi Segreti) e l’appartenenza alla Commissione per il Commercio Internazionale, alla Commissione per gli Affari Esteri, alla Sottocommissione per la Sicurezza e la Difesa, alla Delegazione Permanente per le Relazioni con il MERCOSUR (Mercato Comune del Sud America), alla Delegazione per le Relazioni con i Paesi del Maghreb e l’Unione del Maghreb Arabo.

Emma Bonino è la storica dirigente del Partito Radicale Italiano (poi Partito Radicale Transnazionale) e della Lista Bonino-Pannella, diventata (dagli anni Settanta ad oggi) deputata, senatrice ed europarlamentare. La più importante carica istituzionale che abbia mai ricoperto è stata senza dubbio la più recente, cioè la vicepresidenza del Senato al fianco del presidente Renato Schifani durante l’ultima legislatura (2008-2013). Tuttavia, in ambito governativo è stata ministro per il Commercio Internazionale e per le Politiche Europee fra il maggio 2006 e il maggio 2008. Impegnata a lungo negli anni Novanta presso l’Unione Europea, in qualità di Commissario Europeo per gli Aiuti Umanitari e per la Tutela dei Consumatori, e presso l’ONU, in qualità di Alto Commissario per i Rifugiati, Emma Bonino è una delle personalità più attive in politica estera, all’insegna di un convinto atlantismo del quale si è fatta promotrice sin dai tempi della Guerra Fredda attraverso mobilitazioni e campagne di sensibilizzazione in materia di diritti umani e autodeterminazione regionale interferendo negli affari interni della Russia e di altri Paesi asiatici, dove si batte per l’indipendenza della Cecenia, del Xizang (impropriamente chiamato “Tibet” nell’ambito della pubblica opinione), dello Xinjiang (che la Bonino e i suoi sodali ideologicamente definiscono col nome illegale ed improprio di “Uyghuristan” o “Turkestan Orientale”), del cosiddetto “Kurdistan” e numerosi altri contesti.

Giuliano Amato, ex socialista craxiano poi ulivista, è uno dei personaggi più navigati della politica nazionale: presidente del Consiglio per ben due volte (tra il giugno 1992 e l’aprile 1993 e tra l’aprile 2000 e il giugno 2001), ha guidato il Ministero del Tesoro tra il luglio 1987 e il luglio 1989 e tra il maggio 1999 e l’aprile 2000, nonché il Ministero dell’Interno tra il maggio 2006 e il maggio 2008. Ha ricoperto un incarico-lampo, durato appena cinque giorni, come ministro ad interim degli Esteri, allorquando fu chiamato nel giugno 2001 a sostituire Lamberto Dini (da poco nominato vicepresidente del Senato), che aveva guidato la Farnesina durante il mandato del centrosinistra, dal 1996 (insediamento del governo Prodi I) al 2001 (conclusione del governo Amato II). Pesa sul suo primo mandato (1992-1993), la delibera dell’accordo concluso tra il Commissario Europeo alla Concorrenza Karel Van Miert e il ministro degli Esteri Beniamino Andreatta: un accordo che sancì la completa distruzione della potente macchina economica statale dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), trasformandola in una società per azioni in pochi anni disossata dall’agguerrita concorrenza dei mercati occidentali.

Romano Prodi, ex democristiano, ha ricoperto numerosi ruoli nel campo della politica e dell’economia. È stato presidente del Consiglio per due volte: tra il maggio 1996 e l’ottobre 1998 e tra il maggio 2006 e il maggio 2008. Tuttavia, la sua carriera di alto profilo governativo era cominciata molto prima, ossia nel 1978 quando Giulio Andreotti lo nominò ministro dell’Industria e nel 1982 quando assunse la presidenza dell’IRI sino al 1989, avviando una prima fase di privatizzazione che coinvolse principalmente il gruppo SME, una dismissione alla quale lo stesso governo Craxi si era opposto accusando Prodi di aver proposto a Carlo De Benedetti un prezzo palesemente inferiore al valore reale dell’azienda. Chiamato a svolgere consulenze per la finanziaria statunitense Goldman-Sachs nel 1993, Prodi sembra oggi parzialmente pentito di aver contribuito alla realizzazione di quella che alcuni osservatori hanno definito la reaganomics italiana, tanto da sostenere recentemente che l’ex premier britannica Margaret Thatcher e l’ex presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan sarebbero tra i principali responsabili storici della crisi economica mondiale degli ultimi anni. Attualmente è consulente dell’ONU per l’Africa, ruolo nel quale si è trovato spesso ad elogiare le politiche cinesi nel Continente Nero, affermando che nessuno in America e in Europa è legittimato a dare lezioni morali sulle presunte politiche di ingerenza di Pechino. Nel 2006 Vladimir Putin gli offrì la presidenza della società che avrebbe avuto in gestione il gasdotto euro-russo South Stream, rispetto al quale Prodi ha sempre affermato di aver contribuito per gli interessi dell’Italia, ma rifiutò per evitare le possibili accuse mediatiche di “conflitto d’interessi” e “intelligenza con lo straniero”, accuse dalle quali non è riuscito a sfuggire, invece, per quanto riguarda i suoi rapporti con la Cina, dove insegna presso la China Europe International Business School di Shanghai, e che il giornalista italiano Franco Bechis gli ha recentemente rivolto dalle colonne di “Libero”, innescando un’aspra polemica per ora conclusasi con una querela per diffamazione.

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