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La coscienza del Tempo , o Svevo e Proust: Un’insinuazione

Creato il 05 maggio 2015 da Dragoval

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Da quando, nel 1925 Benjamin Cremieux ha scoperto e salutato l’autore de La coscienza di Zeno come le Proust italien, decretando peraltro l’indiscusso valore della sua opera fino a quel momento totalmente misconosciuta in patria,  il filone ufficiale della critica italiana e d’oltralpe, nelle autorevoli firme di Debenedetti, Langella e Carrai si è sempre espresso in senso contrario ad un’influenza diretta dell’opera di Proust su Svevo,per ragioni di natura essenzialmente stilistica e per la natura cosìprofonda,eterogenea e divagante della Recherche rispetto alla secca essenzialità della Coscienza. Ultimo, ma solo in ordine di tempo, Giuseppe Palmieri, che nel dettagliato e prezioso contributo Esperienza e scrittura: Svevo e Proust (accolto nel volume Non dimenticarsi di Proust, per il quale si rimanda alle note in calce) ripercorre la storia di questo accostamento, sempre mal tollerato dallo scrittore italiano, e ricostruisce la cronologia delle letture proustiane di Svevo in base-tra l’altro-  allo scambio epistolare dell’autore triestino con lo stesso Larbaud, in cui egli dichiara di aver letto  la Recherche solo in seguito all’accostamento del suo nome al proprio, e che è per lui interessante potersi aggiornare sulla letteratura francese (il était puor moi aussi intéressant de me mettre à jour avec v. littérature),eaòòe testimonianze di Livia Veneziani Svevo( Vita di mio marito)secondo cui loscrittore triestino si  sarebbe procuratoquei volumi a seguito della domanda di M.me Crémieux se egli conoscesse  Proust al quale somigliava tanto.

Ma  fino a che punto si può considerare attendibile l’affermazione  di chi  ha fatto della menzogna e della mistificazione  di sé stesso la propria cifra letteraria?  Pur non avendo elementi tali da giustificare una filiazione diretta del romanzo di Svevo dall’opera di Proust, io non credo che esso sia nato in maniera del tutto indipendente da esso. Ciò che appunto voglio insinuare è che egli sia in qualche modo venuto a conoscenza di Proust lui-même e della sua opera, forse indirettamente, ma certo molto prima di quanto si è premurato di volerci- e forse volersi-insistentemente convincere.

Questo romanzo [Senilità, ndr] dapprima non fu pensato per essere pubblicato. Sei anni prima molti suoi capitoli furono scritti con l’intento di preparare l’educazione di Angiolina, quell’educazione di cui nel romanzo tanto spesso si parla. Angiolina fu la prima che conobbe il romanzo di cui ella era la protagonista. Del resto a Trieste si

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sanno i nomi di tutt’e quattro i protagonisti di “Senilità”. Qui non ci sono propositi di filosofia, né le debolezze umane, quella del Brentani in primo luogo, sono sublimate da teoremi. E fu specialmente a proposito di “Senilità” pubblicata quando il Proust che conosciamo noi non era ancora nato, che si fece il nome di quell’autore d’eccezione. Fu anche scoperta una certa analogia fra i rapporti di Emilio con Angiolina e quelli dello Swann con Odette. Certo il paragone fra i due scrittori non dev’essere condotto troppo oltre. Lo provò Marcel Thiébaut nella «Revue de Paris» (del 15 Novembre 1927) da pari suo: «Il y a en effet dans les livres de Proust beaucoup d’éléments étrangers au roman lui–meme, des reflexions philosophiques, psychologiques qui dominent le récit, attestent l’étendue de sa signification et affirment à chaque instant l’existence d’un Proust penseur place si nettement et si aisement au dessus de tous les genres, qu’il semble assez arbitraire de rapprocher de lui, fut il excellent, un écrivain dont l’activité intellectuelle s’exerce dans un domarne moins étendu. Ajoutez à cela que Svevo est dans la tradition des romanciers du XVIII siècle, lucide, sèche.

…. Le roman de Svevo n’est pas indigne de certains points de vue d’ètre rapproché de telles grandes oeuvres de Dickens et de Tolstoi, qui, par la densité de leur atmosphère, le nombre, la variété, l’intensité de vie des personnages qui y circulent, prennent dans notre esprit la valeur d’univers autonomes véritables».

Bisogna anche ricordare che la frase ch’è tutto propria del Proust, con i suoi luminosi incisi e le sue sapienti complicazioni che ricordano una sintassi germanica, non trovano alcuna corrispondenza nella frase breve e brusca e disadorna dello Svevo. Senz’alcuna malizia né per il Proust né per lo Svevo sia ricordato qui che ad ambedue si rimproverano scorrettezze di lingua.

Ecco ciò che si legge nel profilo autobiografico  di Italo Svevo, scritto nel 1928 (che si rivelerà poi l’anno della sua morte, in un incidente automobilistico a Motta di Livenza) in cui Svevo sembra voler pronunciare la parola definitiva sull’ accostamento  della sua opera alla Récherche  proustiana, azzardato come è noto dalla critica francese (Benjamin Cremieux e Valery Larbaud). Il paragone ingombrante è sempre stato mal tollerato dal nostro, che lo temeva forse mosso a proprio discapito, soprattutto considerato l’ostinato silenzio con cui l’opera è stata accolta nel nostro Paese  ; evidentemente, temeva di dovere l’apprezzamento dimostratogli esclusivamente al suo appellativo di Proust italien. In realtà, il primo volume della Recherche era stato pubblicato nel 1913, troppo tardi per Senilità, certo, ma in largo anticipo per la Coscienza.Come è noto,in seguito al rifiuto diAndré Gide, Proust procede alla pubblicazione del volume per i tipi di Grasset,e a proprie spese. In seguito,Gide scriverà ripetutamente all’autore supplicandolo di perdonarlo per non avere immediatamente riconosciuto l’immenso valore dell’opera e di rescindere il contratto con Grasset per affidare la pubblicazione  dei successivi volumi a Gallimard;  e certo anche per questa pubblicazione prestigiosa il secondo volume della Recherche  vince nel 1919 il premio Goncourt, che consacra Proust come il più grande scittore della sua epoca , realizzando così gli auspici espressi,in Du côté chez Swann, da madre e  nonna del Narratore.


Dopo  la pubblicazione e la gelida accoglienza riservata a Senilità,  Svevo conosce  un periodo di crisi, in cui si propone di rinunciare del tutto alla letteratura;

«Dicembre 1902
Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e

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definitivamente ho eliminata dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gl’impotenti di non saper pensare che con la penna alla mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell’azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: In corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare».

Dal profilo autobiografico, apprendiamo da Svevo che egli inizia a lavorare a La Coscienza  nel 1919 (certamente anche dopo la fine della guerra), dunque un anno dopo la consacrazione di Proust.E’ senz’altro vero che il signor Schmitz condivide con l’autore francese le stesse letture, a cominciare da Bergson (Materia e memoria) e negli anni  viaggia spesso in Europa per curare gli affari della  ditta di vernici del suocero,presso cui lavora. Tra le sue mete, la Francia e la  Svizzera, ovvero due dei luoghi in cui si andava diffondendo, sulla onda lunga di Freud e Bergson, l’attenzione alla psicanalisi, l’interpretazione delle nevrosi  che si riduceva a sintomo del corpo un animo malato. Dal profilo autobiografico, apprendiamo da Svevo che egli inizia a lavorare al suo romanzo nel 1919 nell’anno, come dicevamo, della consacrazione di Proust dopo la fine della guerra e un periodo di collaborazione come giornalista su una rivista londinese, che nel Profilo autobiografico è individuata come momento della ritrovata ispirazione letteraria:

Non c’era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo. Certo si poteva fare a meno di pubblicarlo, diceva. Finalmente gli abitanti della sua casa ebbero gli orecchi salvi dall’increscioso rumore del suo violino aritmico.

E’ senz’altro vero che il signor Schmitz condivide con l’autore francese le stesse letture, a cominciare da Bergson e dalla centralità dei concetti di tempo e coscienza; eppure, anche nei confronti di Freud Svevo si ostina a negare il proprio debito diretto dichiarando di aver letto le sue opere con fatica e antipatia a causa del suo stile difficile. Lascio al gusto e alla pazienza del lettore valutare, delle dichiarazioni  di Svevo, la  trasparente valenza freudiana :

Ma quale scrittore potrebbe rinunziare di pensare almeno la psicanalisi? Io la conobbi nel 1910. Un mio amico nevrotico corse a Vienna per intraprenderla. L’avviso dato a me fu l’unico buon effetto della sua cura. Si fece psicanalizzare per due anni e ritornò dalla cura addirittura distrutto: abulico come prima ma con la sua abulia aggravata dalla convinzione ch’egli,

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essendo fatto così, non potesse agire altrimenti. È lui che mi diede la convinzione che fosse pericoloso di spiegare ad un uomo com’era fatto ed ogni volta che lo vedo lo amo per l’antica amicizia ma anche per la nuova gratitudine.
Lessi qualche cosa del Freud con fatica e piena antipatia. Non lo si crederebbe ma io amo dagli altri scrittori una lingua pura, ed uno stile chiaro e ornato. Secondo me il Freud, meno nelle sue celebri prelezioni che conobbi appena nel ‘16, è un po’ esitante, contorto, preciso con fatica. Però ne ripresi sempre a tratti la lettura continuamente sospesa per vera antipatia. Bisogna anche ricordare che vivevo in Austria, la sede del Freud. Le cure del Freud si moltiplicavano e alcune con risultati meravigliosi. A un dato punto io mi trovai nella testa la teoria del Freud […]. Come cura a me non importava. Io ero sano o almeno amavo tanto la mia malattia (se c’è) da preservarmela con intero spirito di autodifesa Anzi la mia antipatia per lo stile del Freud fu interpretata da un Freudiano cui mi confidai come un colpo di denti dato dall’animale primitivo che c’è anche in me per proteggere la propria malattia. Ma la psicanalisi non m’abbandonò più»


L’incontro di Proust con la medicina dell’anima appare altrettanto infelice.

Come si legge nel saggio di Giovanni Macchia, Malattia e creazione (Rizzoli, 1979; già L’allegoria del diluvio, Einaudi 1978), Proust si decide a tentare la cura della nascente psicologia razionale per uscire dalla “paresse”, dall’inettitudine e dalla mancanza di energia e di volontà che da sempre gli rimproveravano  la madre e la nonna, per il comportamento nevrotico derivante dall’irrinunciabilità dei suoi amori omoerotici. Le  e la morte improvvisa della madre per una nefrite nel 1905, proprio quando Proust era in procinto di partire per Berna ed

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affidarsi alle cure del dottor Dubois,  lo  precipitano  nell’abisso . Stremato dal dolore e dall’asma, cui cercava di far fronte con l’uso degli oppiacei, Proust crede ormai di aver ucciso sua madre per i continui crepacuori provocati (a causa, naturalmente, della sua vita irregolare e delle sue relazioni eterodosse). Sceglie così di curare la propria anima a La Salpêtrière, clinica a Boulogne-Billancourt, diretta il dottor Dejerine; e suo medico sarà il dottor Sollier, al quale Proust, (con la sua collaborazione eccessiva e invadente di malato, secondo la definizione di macchia), particolarmente interessato al tema della memoria,   chiede se egli abbia letto Bergson. Alla risposta “sincera quanto infelice” di quello, (“Sì, avrei dovuto farlo,visto che ci occupiamo delle stesse cose. Ma è così confuso e limitato!”), si interrompe ogni dialogo tra medico e paziente, e si scatena in Proust “un invincibile complesso di superiorità” che lo renderà inaccessibile,”murato nella fortezza della sua superbia”.La cura sarebbe dovuta durare sei mesi,ma durerà in realtà solo sei settimane,al termine delle quali egli tornerà a casa definendosi “incredibilmente malato”. Una meravigliosa consonanza unisce  questo episodio con la biografia proustiana  alle prime righe dell’ultimo capitolo dell’opera di Svevo:

L’ho finita con la psico–analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch’ero impedito, e per qualche giorno lascio che m’aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz’adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.


Come afferma  Paolo Pinto, nell’ introduzione all’edizione  italiana della Recherche  curata con Giuseppe Grasso sul testo critico stabilito da Jean Yves Tadié:

È evidente, allora, che la “Recherche”, anche se è la storia di una vita, dall’infanzia all’età adulta, molto somigliante a quella di Proust, anche se è la storia di una vocazione di scrittore che sembra non potersi realizzare, ma che si compie alla fine come per un miracolo, non è un libro di memorie, né un’autobiografia, e il Narratore non è Proust, e i personaggi, così come sono delineati attraverso un lungo arco di tempo, di eventi e di pagine, non sono mai esistiti nella realtà. Eppure, sappiamo che

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tutta la “Recherche” nasce da un’attenta, puntigliosa investigazione del mondo e della sua variegata popolazione. Non esiste personaggio del romanzo che non abbia un corrispondente, o più corrispondenti, nella vita reale. […]Proust, confutando Sainte–Beuve, intese dimostrare che non è possibile svelare il mistero dell’autore frugando nella sua vita. Per avere risposte sicure ed esaurienti bisognava andare al cuore dell’opera. Ma questo non significa che non si possa percorrere, utilmente, la strada inversa, e cercare nell’opera i sentimenti, le idee e finanche la biografia (almeno quella più intima e segreta) di un autore. […]Nella “Recherche”, insomma, tutto è falso, e chi pretendesse di scrivere una biografia di Proust basandosi esclusivamente su di essa giungerebbe sicuramente ad esiti fallimentari; eppure è anche tutto vero, nel senso che non c’è emozione, sentimento, idea, personaggio dell’opera che prescinda totalmente dalla vita dell’autore.

Non esiste oltre la Recherche un’altra opera come la Coscienza dove i termini tempo,coscienza e menzogna e nevrosi siano tanto cruciali. E come la Recherche presenta una sostanziale intermittente e vertiginosa sovrapposizione dell’Io scrivente sull’Io narrante, un’organizzazione insieme cronologica e tematica, alcune incredibili consonanze (per citarne una inconsueta, il rapporto di Zeno con Carla Gerco, la giovane amante bisognosa, che sembrano a tratti adombrare, sia pure con un risvolto diverso, quello del Narratore per Albertine), l’abitudine di Zeno alla menzogna.

Zeno è evidentemente un fratello di Emilio e di Alfonso. Si distingue da loro per la sua età più avanzata e anche perché è ricco. Potrebbe fare a meno della lotta per la vita e stare in riposo a contemplare la lotta degli altri. Ma si sente infelicissimo di non poter parteciparvi. È forse ancora più abulico degli altri due. Passa continuamente dai propositi più eroici alle disfatte più sorprendenti. Sposa ed anche ama quando non vorrebbe. Passa la sua vita a fumare l’ultima sigaretta. Non lavora quando dovrebbe e lavora quando farebbe meglio ad astenersene. Adora il padre e gli fa la vita e la morte infelicissima. Rasenta una caricatura, questa rappresentazione; e infatti il Crémieux lo metteva accanto a Charlot, perché veramente Zeno inciampa nelle cose. Ma fu già riconosciuto che abbandonando Zeno dopo di averlo visto moversi, si ha l’impressione evidente del carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desiderii. Ed è il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura delle proprie preferenze per attenuare il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti. «E scoprendo tanto imprecisa la nostra personalità piuttosto oscurata che chiarita dalle nostre intenzioni che non arrivano ad atteggiare la nostra vita, finiamo col ridere dell’attività umana in generale.» Ma Zeno si crede un malato eccezionale di una malattia a percorso lungo. E il romanzo è la storia della sua vita e delle sue cure.


La coscienza di Zeno venne data alle stampe nel 1923. Proust era morto pochi mesi prima , il 17 Novembre 1922, stremato dalla polmonite e dalla fatica sovrumana di completare la sua immensa cattedrale del ricordo. Consapevole ormai di brillare di luce propria e non più di mera luce riflessa dal capolavoro proustiano, grazie all’opera di Montale e Debenedetti  su Solaria  e alla stessa critica francese grazie ad un articolo di MarcelThiébaut sulla Revue de Paris apparso il 15 Novembre 1927, in una lettera a Piero Jahier del 2 Dicembre 1927, Zeno  può scrivere finalmente:

Non creda che mi dolga di vedermi staccato dal Proust. Furono due destini tanto differenti!Il suo tanto più fine del mio, e non è possibile che un uomo rude come son io somigli al prodotto più perfetto di una civiltà tanto affinata.

Sembra quasi di sentire la voce di Zeno dopo la morte di Guido (con conseguente atto mancato del funerale ed energiche proteste del proprio affetto profuse alla vedova Ada) ,appena velata dalla convenienza delle apparenze sembra di intuire la (dolorosa?) consapevolezza di un limite, oltre forse alla repressa esultanza, di sapersi sopravvissuto, grazie alla paradossale  originalità della vita, a quel  dotato e ingombrante  antagonista.

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*Il sito imprescindibile per chi voglia, da neofita o da esperto, accostarsi o riorientarsi nell’universo proustiano, e  la sua evoluzione;

**Il testo del profilo autobiografico di Svevo nell’edizione dei Classici italiani a cura di giuseppe Bonghi;

***L’anteprima dell’ottima rassegna critica Non dimenticarsi di Proust ,  a  cura di Anna Dolfi, Firenze University Press, 2014,606 pp. Il contributo di Giovanni Palmieri, Esperienza e scrittura: Svevo e Proust a più riprese citato  e utilizzato in questo post , è leggibile a pag. 233

****La doviziosa pagina di Wikipedia dedicata alla Recherche  e il testo completo de La coscienza di Zeno



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