In ottemperanza alla centralità del soggetto e della sua prospettiva, l'opera assume la voce del suo stesso protagonista: l'io narrante ci presenta se stesso, l'io narrato, in un monologo interiore che, pur non raggiungendo gli eccessi del flusso di coscienza anglosassone, presenta diverse criticità, a partire dal tempo misto che porta Zeno a raccontare la propria malattia/nevrosi in maniera tematica, seguendo i diversi nodi attorno ai quali si sviluppa il suo disagio (il tentativo di smettere di fumare, il rapporto conflittuale con il padre, il matrimonio e l'altalenante passione per l'amante Carla, la competizione col cognato Guido), anziché seguendo l'ordine cronologico delle vicende, con una successione di sequenze del tutto arbitraria e resa più complessa da inserti di ricordi e diverse omissioni. Come è noto, Zeno si racconta per prescrizione terapeutica del saccente dottor S. (nella puntatura del nome è ben chiaro il riferimento a Sigmund Freud), che, offeso dal rifiuto della cura e dall'irrisione della stessa da parte del paziente, violando ogni deontologia, pubblica lo scritto. La narrazione, pertanto, è frammentaria e del tutto inattendibile, sia perché non abbiamo la certezza che quanto scritto da Zeno sia vero, sia perché non abbiamo modo di escludere ulteriori manipolazioni da parte del permaloso dottore. L'opera ci impedisce di dare qualsiasi giudizio, di trovare un significato e rimane, significativamente, aperta.
E. Munch, Gelosia
Da questo autoritratto, Zeno emerge come un personaggio incapace di prendere decisioni, che esse riguardino la sua salute, il matrimonio (sceglie il suocero ma, sebbene punti, fra le sue figlie, la bella Ada, ciò che gli preme è sposare una delle sorelle Malfenti), la rottura con l'amante o la vita affaristica. Zeno appare come un inabile alla vita, la personificazione dell'inetto, la figura più presente nel romanzo della prima metà del secolo. Ma, stavolta, l'inettitudine costituisce un inatteso privilegio, che scaturisce dalla scomoda affermazione di Zeno sulla società in cui si trova a vivere. Zeno scrive il proprio diario nel tentativo di guarire da una nevrosi, dal suo essere disadattato, da un disagio che alimenta per soddisfare la compiacenza del dottor S. nel trovarvi radici edipiche, la scrittura è un mezzo per scavare nella malattia e cercare la salute. Eppure la sua conclusione è paradossale: Zeno sente di essere l'unico sano in una società malata, poiché è tenacemente attaccato alle proprie pulsioni, all'amore, alla sensualità, al bisogno di divertirsi (che agli occhi del padre e di Ada sembra un segno di immaturità), mentre coloro che appaiono socialmente "sani" sono in realtà esseri alienati, che vivono solo per il profitto e sono assuefatti alla logica della sopraffazione, al punto da costruire ordigni e armi che, anziché produrre il progresso, consegnano l'umanità ad un destino di distruzione, la cui profezia riempie le ultime righe del romanzo, forse le più famose. «La vita attuale è inquinata alle radici»: l'uomo, nel suo conformismo e nel suo cieco inseguimento del progresso materiale, si procaccia la distruzione, uccide la vita, soffoca l'istinto che la anima. Ecco perché Zeno, che pure annuncia sul finale di essere guarito per il fatto che si è buttato nel mondo della speculazione, cerca disperatamente i segni delle proprie pulsioni vitali, analizzando le proprie reazioni nel toccare la carne giovane di Teresina. Simbolo perfetto della cosiddetta "salute" è Augusta, la moglie bruttina cui arriva per paura di restare solo, ma che lo pervade con il suo affetto, devota e sensibile nonostante i tradimenti: ella è perfettamente a suo agio nelle convenzioni, nella fede, nelle consuetudini familiari, nel rispetto delle autorità, ma a Zeno, che pure non ha mai voluto infrangere questa sua prigione di cristallo, tale condizione appare, semmai, come la vera malattia. Essere inetti, non adeguarsi, diventa, pertanto, un segno di eccezionalità, di una dote che permette di sottrarsi all'alienazione e all'autoconsunzione.
G. Caillebotte, Ritratto di Henri Cordier
La coscienza di Zeno è un romanzo destabilizzante: non solo ci pone di fronte al fallimento del positivismo e del mito del progresso, non solo corrode le certezze costruite dall'umanità in secoli di vita sociale, ma ci priva anche di quell'archetipico patto fra autore e lettore che obbliga il secondo a credere al primo. Zeno/Svevo non ha verità da offrirci, non ha una lente da porci perché ricerchiamo un senso rassicurante nelle sue pagine, ma ci pone di fronte alla disarmante certezza, tipica dell'individuo del XX secolo, di non avere chiavi universali per la conoscenza e il giudizio dell'umanità.
Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire.C.M.