di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista
da “Il Foglio“, 10/10/13
Esce in questi giorni per Cantagalli, “I Volti della coscienza“ di Massimo Gandolfini, primario neurochirurgo e vice presidente nazionale di Scienza e Vita. Un testo scientifico, e nello stesso tempo divulgativo, in cui il problema dei rapporti mente-cervello viene analizzato alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, tenendo presente un dibattito filosofico e teologico secolare.
La tesi del libro, veramente opportuno in tempi in cui sulle neuroscienze si scrive di tutto, è che “il cervello è organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza”. A questa conclusione, di buon senso, in perfetto accordo con secoli di pensiero filosofico sull’uomo e la sua natura anfibia, si perviene dopo vari capitoli “tecnici” dedicati allo “stato vegetativo”, allo “stato di minima coscienza”, a “neuroimaging e stato vegetativo”, a “neuroimaging e attività cerebrale”… Alla fine del percorso scientifico, in un capitolo intitolato “Coscienza e cervello”, Gandolfini conclude: “un rigido meccanicismo che sostenga apoditticamente che la coscienza è il ‘prodotto’ del cervello induce all’errore di confondere ‘causa strumentale’ (o ‘mezzo’) e ‘causa formale’ (o ‘causa vera’), secondo l’insegnamento classico di Socrate a Cebete…”.
Leggendo queste pagine viene alla mente la concezione di coscienza portata avanti da buona parte della cultura riduzionista contemporanea, e, a livello divulgativo, dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari. Per Scalfari, molti lo ricorderanno, l’uomo non differisce, secondo una sua celebre affermazione, dalla mosca, in quanto come lei destinato solo alla morte e determinato nella sua esistenza da un rigido meccanicismo. Privo, in altre parole, di anima immortale. Nel suo “L’uomo che non credeva in Dio”, una sorta di testamento spirituale del 2008, il maestro del pensiero ateo contemporaneo, definiva gli uomini “universi di cellule, di flussi sanguigni, di inconsce passioni”, e di fronte alla grande domanda sul pensiero e la coscienza, in un paragrafo intitolato “La gabbia dell’io”, affermava: “Insomma, l’io non esiste. E’ una superstizione. Oppure una caricatura. Una maschera… Un computer depositario di una memoria. Una gabbia. Un capriccioso dittatore. Oppure un prigioniero?”.
Niente di nuovo, dunque, ma la riesposizione di dottrine orientali e gnostiche esistenti da secoli, che a Scalfari piace talora mescolare con riduzionismi materialisti di stampo pseudoscientifico. Di qui un articolo del luglio 2013, sull’Espresso, proprio sulla coscienza, nel quale viene presentata la tesi di un romanziere, Ian McEwan, secondo il quale il cervello altro non sarebbe che un pianoforte, cioè un insieme materiale di tasti, viti e martelletti, e la mente altro non sarebbe che la musica, impalpabile come il pensiero, prodotta, in toto, da questo pianoforte. Chiosa Scalfari: “La sorpresa sconvolgente di McEwan sull’origine materialistica della coscienza non è una novità: gli scienziati che studiano il cervello ci sono arrivati da tempo…”. Il lettore è avvertito: l’idea di coscienza di Scalfari e quella del romanziere sono la verità, nulla di meno. Peccato che le cose non stiano così, come dimostra il già citato studio di Gandolfini, che non è né un giornalista, né un romanziere, ma uno dei tanti neuroscienziati che hanno ben chiaro come sia impossibile ridurre il pensiero e la coscienza alla materia, la cattedrale ai sassi che la compongono, una musica ai martelletti di un pianoforte…
Proprio l’esempio scelto da Scalfari, infatti, dice dell’irrazionalità di simile posizione: un pianoforte, senza un’ intelligenza, senza una causa vera, il musicista, che se ne serva come di una causa seconda, come di un mezzo, non produce alcuna musica, alcuna armonia. Il pianoforte non è, di per sé, dunque, “origine” di nulla. Sostenere il contrario significa semplicemente fare un atto di fede, senza fondamenti né scientifici né logici, nella capacità della materia, in questo caso il pianoforte, di superare se stessa (nella possibilità della materia, per quanto riguarda l’uomo, di conoscere se stessa). Viene in mente, in proposito, quanto scrive un altro riduzionista come Edoardo Boncinelli, nel suo “Le forme della vita” (2006). Egli afferma che coscienza di sé e linguaggio umani sono “facoltà che ci appaiono quasi spuntate dal nulla”, sostanzialmente irriducibili al metodo scientifico, per poi catalogarle, con evidente illogicità e forzatura, tra gli “eventi accidentali”, gli “incidenti congelati” (espressioni senza significato alcuno).
E’ chiaro dunque quanto sia arduo intendersi tra riduzionisti atei ed eredi del pensiero greco-cristiano, sulla parola “coscienza”: per gli uni la coscienza è frutto del caso, “incidente congelato”, prigione, escrescenza della materia (dunque, come scriveva Benedetto XVI, essa diviene “l’istanza che ci dispensa dalla verità”, il “guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà”, la “giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione”…); per gli altri, al contrario, la coscienza è, secondo il catechismo, “il nucleo più segreto ed il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”, per fare i conti con la sua origine e il suo fine.
Presentando il suo libro il prof Gandolfini ha spiegato: “La coscienza va letta come un “pattern relazionale”, cioè come atto che scaturisce dalla relazione fra più componenti: geni e reti neurali, ma anche ambiente di vita, esperienze e “biografia” del soggetto. Dall’interazione di queste forze, attraverso meccanismi non rigidamente determinabili, scaturisce la “coscienza” , che è tutt’altro rispetto alle stesse forze che l’hanno determinata, non essendo riducibile a nessuna di esse. E tutto ciò non costituisce per nulla un atteggiamento fideistico-antiscientifico, se solo pensiamo che perfino la matematica (scienza esatta per eccellenza, costruita dalle nostre stesse mani) implica principi di “indeterminazione” (Heisenberg) e di “incompletezza dei sistemi” (teorema di Godel), per i quali esistono enunciati perfettamente compatibili con gli assiomi di partenza, ma assolutamente indimostrabili con gli stessi strumenti prescelti. Se così è di qualcosa di inerte, come non porsi almeno il dubbio che ancor di più vale per una materia vivente, continuamente rimodellabile e modificabile. In una battuta, va ribaltata la prospettiva: non è il cervello a dirci che cosa è la coscienza, ma è la coscienza a dirci che cosa è il cervello“.