La crescita criminale e un pò onirica di Audiard

Creato il 28 marzo 2010 da Dylandave

- Il Profeta – 2010 – ♥♥♥♥♥ -

di

Jacques Audiard

Il Carcere dovrebbe servire a reintegrare i criminali nella società e a far dimenticar loro il passato delinquenziale che li ha condannati a quegli anni. Ma per Malik ( Tahar Rahim) non sembra sia così. Il giovane diciannovenne fa ingresso in prigione con pochi stracci e una sola banconota e il suo periodo in prigione è per lui solamente l’ occasione per crescere come criminale fino a raggiungere il momento della libertà con forti amicizie e degli affari ben ramificati ed stabili. I personaggi di Audiard ( lo è anche il Vincent Cassel di Sulle mie labbra) sono sempre un pò vittime dei loro eventi che inevitabilmente li trasformeranno in uomini diversi. Il regista francese lascia però allo spettatore il giudizio finale se questo cambiamento sia stato qualcosa di positivo o di negativo per loro. Ed è proprio con questo occhio mai giudicante che la macchina da presa di Audiard si muove velocemente e in maniera sensibile tra i suoi personaggi facendo delle riprese dinamiche un vero raccordo tra l’ espressione cinematografica e l’ evoluzione di Malik. Anche il linguaggio (tre sono le lingue usate ne Il Profeta) diviene un mezzo simbolico del cammino di Malik verso l’ accettazione della propria identità e il raggiungimento della propria libertà, quella che non lo renderà più obbligato a ricevere ordini dall’ alto ( nello specifico quelli del Boss còrso Luciani). Il francese e la grammatica continuamente approfondita nelle lezioni carcerarie sarà per lui il modo per integrarsi maggiormente nello stato in cui vive (Malik è di origine araba), la lingua corsa lo aiuterà nella frequentazione della gang di Luciani e dei Corsi, fruttandogli anche il soprannome di profeta proprio perchè in grado di capire tutti in anticipo, mentre la lingua araba sarà per lui l’ espressione finale di quella libertà individuale che dovrà riconquistare. Ma Un Prophète ( questo il titolo originale) non è solo un’ opera sulla crescita di un personaggio ma racchiude al suo interno frequenti metafore sociali sulla realtà della Francia e le separazioni ancora presenti tra le etnie, non solo in carcere ma anche nella vita da uomini liberi. Proprio come accadeva un anno fà con La Classedi Cantet ancora una volta per parlare della condizione della Francia bisogna parlarne ” Entre les murs”. E’ come se Audiard volesse comunicarci che tutto quello che accade dentro di noi inevitabilmente è poi lo specchio di quello che all’ esterno facciamo vedere. E’ così che Malik prende gradualmente coscienza di quella che è la sua identità, delle sue aspirazioni come uomo, impara ad essere il principale artefice di sè stesso. E anche i 150 lunghi minuti del film evolvono da dei titoli d’ apertura che si intravedono nel buio, un pò come Malik che dal momento in cui entra in prigione acquisisce una visione limitata delle cose, a quel primo piano finale a schermo intero che apre la prospettiva sulla visione dei fatti (il Malik che dietro di sè ha creato un impero). Il Profeta è anche capace di fondere i continui sensi di colpa, esternati dalle visioni mistiche e oniriche del giovane Malik alla crudezza dei fatti, esplicati dagli intrecci malavitosi di droga e dalle intolleranze tra le etnie. Per gustarne del tutto queste varie sfumature, date soprattutto dalle tre lingue presenti nel film, un consiglio è quello di vederlo in lingua originale. Forse unico modo anche di comprendere in pieno gli immensi pregi presenti in questo perfetto lavoro di Audiard che gli ha fruttato il Grand Prix all’ ultimo Festival di Cannes.

( Il legame con i Corsi)

( Uno dei momenti onirici di Malik)

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