Poi, udirli supplicare le forze dell’ordine e sentirsi rispondere che no, non possono farci niente perché gli occupanti hanno bambini e le cose in Italia vanno così. Vorrei sentirli urlare mentre battono i pugni sulla porta della loro “non più casa”, accasciarsi a terra disperati con la certezza che gli invasori fanno propri i loro oggetti più cari, e obbligarli ad assistere impotenti al lancio dei pezzi della loro vita dalla finestra. Vorrei assistere, ma in concreto, ad un loro esempio d’integrazione. La fasulla favola buonista li vedrebbe ballare coi Rom una danza gitana, al ritmo di tamburelli che fan da sfondo alla creazione nomade di mestoli e paioli di rame. Peccato che i “veri” zingari siano rimasti in pochi ed estranei alla marmaglia che si spaccia nomade per non rendere conto né dei figli mendicanti né delle auto di lusso né del rame che rivendono dopo avercelo strappato dalle nostre canaline per l’acqua piovana. Che senso di rivalsa poterli veder correre a gambe levate per le vie dei palazzoni popolari mentre vengono importunati da spacciatori e delinquenti che li accerchiano per rapinarli, violentarli o semplicemente umiliarli. Salire scale di angusti palazzi alzando la gambetta per evitare l’immondizia o le feci liberate da qualche “non essere umano”. Lo stesso che siede sullo scalino davanti la porta che s’affrettano ad aprire, mentre l’incivile sghignazza lascivo accarezzandosi la patta dei pantaloni. Devono essere noi. Devono “viverci”. Indifesi, ricattati e senza speranza grazie anche alle loro belle parole di stagionati figli dei fiori che spargono petali di solidarietà dai salotti buoni delle loro sciccose dimore, da qualche teatro che li acclama o dallo scranno di un Parlamento che da troppo tempo ci divide. Vorrei provassero quella sensazione di rabbia che coglie il normale cittadino mentre sale sull’autobus, metropolitana o treno e obliterare quel biglietto che pesa sulla misere finanze famigliari ed assistere all’assalto di chi non paga e ti guarda con aria di sfida ricambiando il tuo sguardo ormai rassegnato. O dover guardare il porco che ti orina davanti e far finta di niente per non rischiare le botte. Vorrei vederli perdere il lavoro e mendicarne uno per due o tre euro l’ora. Assaporare la bile che sale in gola e ricacciarla giù, accettando quattro soldi per poter mangiare e tornare stancamente a casa sperando che nessuno ne abbia cambiato la serratura. A questo scambio di vite, farei posto anche ai ragazzi col pugno alzato, i vigliacchi troppo spesso incappucciati, quelli che se gli scontri tra loro le teste non ne metti insieme una. Quelli che fanno la lotta di classe col culo degli altri mentre sono mantenuti da papino, frequentano i licei “bene” della città e scendono in piazza contro questo o quello senza aver provato, nemmeno per cinque minuti della loro agiata e bella vita, i panni di una persona perbene obbligata a vivere ai margini, accanto ai peggiori delinquenti di questa malata società italiana. Li obbligherei a patire il freddo gelido che penetra le ossa perché i soldi per la bolletta son finiti, nutrirsi di pane e latte e soffrire senza medicine perché troppo care. Vorrei alzassero lo sguardo rassegnato mentre passano sotto l’albergo, residence o centro accoglienza del quartiere e tacere di fronte allo sfregio dell’assistenza agli ultimi arrivati a cui si deve dar bene da mangiare, vestire, sigarettare, telefonizzare e tenere al caldo. Stringere i pugni, ingoiare e andare avanti di fronte ai sorpassi dei nuovi portatori di diritto nelle graduatorie per le case o gli asili che fino a ieri spettavano ai nostri ultimi. Basta menare il torrone con la parola razzismo, esasperata all’ennesima potenza ed usata come intercalare obbligatorio dai ricchi e fasulli intellettuali nostrani. Il razzismo non c’entra un emerito fico secco ma loro, gnucchi, fan finta di non capire, perché fa chic. Siano coerenti e da esempio, una sola volta nella vita. Che donino tutti i loro averi, denari e case a chi pensano sia più bisognoso, bianco o nero non importa. Che tolgano a loro stessi il grasso che cola e non a chi ha ossa buone solo per il brodo.
Poi, udirli supplicare le forze dell’ordine e sentirsi rispondere che no, non possono farci niente perché gli occupanti hanno bambini e le cose in Italia vanno così. Vorrei sentirli urlare mentre battono i pugni sulla porta della loro “non più casa”, accasciarsi a terra disperati con la certezza che gli invasori fanno propri i loro oggetti più cari, e obbligarli ad assistere impotenti al lancio dei pezzi della loro vita dalla finestra. Vorrei assistere, ma in concreto, ad un loro esempio d’integrazione. La fasulla favola buonista li vedrebbe ballare coi Rom una danza gitana, al ritmo di tamburelli che fan da sfondo alla creazione nomade di mestoli e paioli di rame. Peccato che i “veri” zingari siano rimasti in pochi ed estranei alla marmaglia che si spaccia nomade per non rendere conto né dei figli mendicanti né delle auto di lusso né del rame che rivendono dopo avercelo strappato dalle nostre canaline per l’acqua piovana. Che senso di rivalsa poterli veder correre a gambe levate per le vie dei palazzoni popolari mentre vengono importunati da spacciatori e delinquenti che li accerchiano per rapinarli, violentarli o semplicemente umiliarli. Salire scale di angusti palazzi alzando la gambetta per evitare l’immondizia o le feci liberate da qualche “non essere umano”. Lo stesso che siede sullo scalino davanti la porta che s’affrettano ad aprire, mentre l’incivile sghignazza lascivo accarezzandosi la patta dei pantaloni. Devono essere noi. Devono “viverci”. Indifesi, ricattati e senza speranza grazie anche alle loro belle parole di stagionati figli dei fiori che spargono petali di solidarietà dai salotti buoni delle loro sciccose dimore, da qualche teatro che li acclama o dallo scranno di un Parlamento che da troppo tempo ci divide. Vorrei provassero quella sensazione di rabbia che coglie il normale cittadino mentre sale sull’autobus, metropolitana o treno e obliterare quel biglietto che pesa sulla misere finanze famigliari ed assistere all’assalto di chi non paga e ti guarda con aria di sfida ricambiando il tuo sguardo ormai rassegnato. O dover guardare il porco che ti orina davanti e far finta di niente per non rischiare le botte. Vorrei vederli perdere il lavoro e mendicarne uno per due o tre euro l’ora. Assaporare la bile che sale in gola e ricacciarla giù, accettando quattro soldi per poter mangiare e tornare stancamente a casa sperando che nessuno ne abbia cambiato la serratura. A questo scambio di vite, farei posto anche ai ragazzi col pugno alzato, i vigliacchi troppo spesso incappucciati, quelli che se gli scontri tra loro le teste non ne metti insieme una. Quelli che fanno la lotta di classe col culo degli altri mentre sono mantenuti da papino, frequentano i licei “bene” della città e scendono in piazza contro questo o quello senza aver provato, nemmeno per cinque minuti della loro agiata e bella vita, i panni di una persona perbene obbligata a vivere ai margini, accanto ai peggiori delinquenti di questa malata società italiana. Li obbligherei a patire il freddo gelido che penetra le ossa perché i soldi per la bolletta son finiti, nutrirsi di pane e latte e soffrire senza medicine perché troppo care. Vorrei alzassero lo sguardo rassegnato mentre passano sotto l’albergo, residence o centro accoglienza del quartiere e tacere di fronte allo sfregio dell’assistenza agli ultimi arrivati a cui si deve dar bene da mangiare, vestire, sigarettare, telefonizzare e tenere al caldo. Stringere i pugni, ingoiare e andare avanti di fronte ai sorpassi dei nuovi portatori di diritto nelle graduatorie per le case o gli asili che fino a ieri spettavano ai nostri ultimi. Basta menare il torrone con la parola razzismo, esasperata all’ennesima potenza ed usata come intercalare obbligatorio dai ricchi e fasulli intellettuali nostrani. Il razzismo non c’entra un emerito fico secco ma loro, gnucchi, fan finta di non capire, perché fa chic. Siano coerenti e da esempio, una sola volta nella vita. Che donino tutti i loro averi, denari e case a chi pensano sia più bisognoso, bianco o nero non importa. Che tolgano a loro stessi il grasso che cola e non a chi ha ossa buone solo per il brodo.
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