La crisi non è finita

Creato il 08 agosto 2013 da Keynesblog @keynesblog

Secondo il ministro dell’Economia Saccomanni e il presidente del consiglio Letta, la crisi è finita e ci avviamo, a partire dall’ultimo trimestre del 2013, verso la ripresa. A sostegno di tale previsione (l’ennesima) vi sono il miglioramento della produzione industriale e segnali di ritorno alla fiducia di imprese e consumatori. Basta questo a sostenere che la crisi è alle spalle e ci avviamo verso un recupero?

 In primo luogo i fattori di rischio sono ancora presenti. Un nuovo downgrade dell’Italia, ad esempio, avrebbe stavolta effetti significativi perché diversi fondi pensione sono obbligati a non acquistare titoli con rating minore di BBB- (il limite minimo per l’ “investment grade”). Ancora non è chiaro cosa accadrà per IMU ed IVA. La situazione greca è ancora calda e potrebbe essere necessario un nuovo “haircut” del debito e nuovi aiuti. L’Asia e l’America latina hanno rallentato la loro crescita (e perciò non assorbiranno grandi quantità di export dall’Europa) mentre gli USA sono impegnati in una strategia di riduzione del deficit della bilancia commerciale.

Ma anche se tutto si incastrasse nel migliore dei modi per il nostro paese, non si potrebbe parlare di ripresa. La situazione che si prospetta, nello scenario migliore, è quella di una – probabilmente lunga – stagnazione, una situazione di equilibrio in cui la caduta del prodotto si arresta senza riprendere vigorosamente a crescere verso i livelli precedenti. E’ proprio la situazione “tipo” che Keynes descriveva nella Teoria Generale: “[il sistema economico] in effetti sembra in grado di rimanere in una condizione cronica di attività sub-normale per un periodo considerevole, senza alcun marcata tendenza sia verso la ripresa o verso completo collasso”. 

La stagnazione ha inoltre una conseguenza gravida di problemi: la disoccupazione permanente. Se l’economia non torna a crescere a ritmi sostenuti (oltre il 2-3% annuo), la disoccupazione non viene riassorbita e pertanto rimane in un equilibrio di sotto-occupazione, il che peraltro significa maggiori spese sociali per lo Stato e minori entrate. Nel quadro istituzionale europeo, in cui gli stati non possono sforare il 3% di deficit annuo, ciò comporta il mantenimento o anche l’aumento della tassazione. E ciò senza contare gli impegni presi con il Fiscal Compact che ci obbligano a ridurre il debito pubblico e a mantenere il pareggio di bilancio.

Insomma, non torneremo ai livelli pre-crisi, che peraltro non erano affatto brillanti, essendo il risultato di una sostanziale stagnazione nel decennio precedente.

L’Italia non si muove verso il recupero, ma – al più – verso una situazione di crisi permanente. Sempre che vada tutto bene.


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