Un duplice schiaffo all’Argentina e alla sua, mai eccessivamente lampante, per la verità, sovranità nazionale. Se da una parte i “saggi” respingono così l’appello presentato da Buenos Aires, confermando di fatto la precedente decisione che impone per intero il pagamento di 1,3 miliardi di dollari a favole degli hedge funds titolari di “tango bond” andati in default, dall’altra stabiliscono inoltre che coloro che possedessero quote di bond argentini possano far ricorso alle corti statunitensi per costringere l’Argentina a svelare le proprie proprietà e i propri beni, facilitando in tal modo il recupero dei crediti. L’Argentina si trova quindi, nel silenzio quasi totale dei media ortodossi, per usare il gergo degli analisti finanziari, “tra la spada e la parete”. Di fatto la sentenza, scavalcando qualsiasi organismo internazionale e creando i presupposti di un pericoloso precedente, impedisce così a qualsiasi stato di rinegoziare la ristrutturazione del debito. Proprio quella, accettata dal 93% dei creditori, che permise all’Argentina stessa di superare il default e la crisi del 2001, e che fu peraltro accordata pure alla retta e moralizzante Germania, sia nel 1953 che nel 1990. L’enorme ed ormai incontrollabile sproporzione tra finanza globale ed economia reale sembra, a tal proposito, far sentire i muscoli della propria potenza anche a livello legale. Essa, pare suggerire implicitamente la sentenza, non si accontenta più di superare dalle 10 alle 14 volte la produzione reale, ma pretende di essere anche moralmente migliore di essa (a seconda delle traballanti, ma autenticamente oggettive valutazioni degli addetti ai lavori, già nel 2008, ad esempio, sommando la dimensione del mercato dei derivati (668mila miliardi di dollari) alla filiera della finanza più “tradizionale” (167mila miliardi di dollari), scopriamo che il rapporto di potenza tra finanza in generale e Pil mondiale (60.600 miliardi di dollari) era di 14 a 1. Oppure ancora, tanto per continuare a cavalcare l’incorruttibilità dell’assoluto numero: il valore dell’import-export mondiale è di 15.000 miliardi di dollari l’anno, la stessa cifra di "denaro" che il commercio delle valute con finalità speculative riesca a movimentare in meno di una settimana). Riducendo quindi all’osso la spigolosa questione: gli Usa tengono per le palle l’Argentina e il suo popolo. O meglio: Wall Street e la Borsa declinata nel suo senso moderno, quella che Simmel chiamava profeticamente il regno della “razionalità pura” (zweckrational), avendo vinto il rapporto numerico di forza con l’economia reale può, d’ora in avanti, avere l’ultima parola su decisioni capaci d’incidere radicalmente sul benessere economico dei popoli e delle vecchie nazioni. E’ d’altronde la logica conseguenza della forma mentis che l’etica capitalista ha operato sulla percezione degli uomini (per la verità il rapporto andrebbe invertito: l’uomo ha trovato, dopo un peregrinare durato qualche millennio, un pensiero a cui sottoporsi, che lo guidi “assolutamente”, certo e verificabile. Così da poter finalmente coronare il sogno d’essere schiavi nell’autoillusione del contrario. E l’ha reificato, perversamente, addirittura al di sopra di sé stesso: tutto viene così ritradotto in termini razionali, quantitativi, in denaro. Per dirla con Rifkin: “in tutta l’età moderna il valore degli individui è stato misurato con il valore di mercato del proprio lavoro”). La non-cultura del calcolo e della contabilità, del virtuale computistico, del mezzo appropriato ai fini, della téchne, della razionalità e della misurazione dell’intero esistente è finita, in un cortocircuito ossimorico, per produrre paradossalmente un informe “qualcosa” del tutto irrazionale (si pensi, quale astrazione simbolica di tale schizofrenia del cogito, ai Financial Futures o alle opzioni knock-out, scommesse sulle scommesse, o sul nulla: il futuro. Ormai si traffica e si vende ciò che non esiste). La dimostrazione di come la razionalità astratta, pura, in barba ad ogni principio di realtà, abbia prodotto paradossalmente un mondo inverosimile e irrazionale, nemico mortale dell’uomo, ci viene suggerita dall’andamento delle borse mondiali, che hanno già ampliamente superato i livelli pre-crisi e quello dell’”economia reale” che, al contrario, ancora langue. Si pensi ancora, quale esemplare scissione tra il meccanismo finanziario e l’umanità presa metaforicamente nei propri bisogni, anche al “venerdì nero” del marzo 1996 di Wall Street. L’8 marzo la Borsa newyorkese crollò, trascinando nel barato le consorelle minori europee, alla notizia che nel febbraio precedente si erano creati più di 700mila posti di lavoro. Pochi anni prima l’indice Dow Jones salì alle stelle per una proiezione di segno opposto: la Xerox licenziò decine di migliaia di lavoratori per “efficientare” i propri utili (ciò che è successo anche, per rimanere più vicini alla stringente attualità, anche qualche giorno fa con le azioni della Microsoft, i cui valori sono saliti precocemente alle stelle dopo l’annuncio del taglio di 18.000 posti di lavoro a seguito dell’acquisizione di Nokia). Ci stiamo uccidendo con le nostre stesse mani, e andiamo allegramente incontro al fatal destino con la sfrontatezza di un Re Mida che nulla ha imparato dalla propria protervia e ingordigia.
Un duplice schiaffo all’Argentina e alla sua, mai eccessivamente lampante, per la verità, sovranità nazionale. Se da una parte i “saggi” respingono così l’appello presentato da Buenos Aires, confermando di fatto la precedente decisione che impone per intero il pagamento di 1,3 miliardi di dollari a favole degli hedge funds titolari di “tango bond” andati in default, dall’altra stabiliscono inoltre che coloro che possedessero quote di bond argentini possano far ricorso alle corti statunitensi per costringere l’Argentina a svelare le proprie proprietà e i propri beni, facilitando in tal modo il recupero dei crediti. L’Argentina si trova quindi, nel silenzio quasi totale dei media ortodossi, per usare il gergo degli analisti finanziari, “tra la spada e la parete”. Di fatto la sentenza, scavalcando qualsiasi organismo internazionale e creando i presupposti di un pericoloso precedente, impedisce così a qualsiasi stato di rinegoziare la ristrutturazione del debito. Proprio quella, accettata dal 93% dei creditori, che permise all’Argentina stessa di superare il default e la crisi del 2001, e che fu peraltro accordata pure alla retta e moralizzante Germania, sia nel 1953 che nel 1990. L’enorme ed ormai incontrollabile sproporzione tra finanza globale ed economia reale sembra, a tal proposito, far sentire i muscoli della propria potenza anche a livello legale. Essa, pare suggerire implicitamente la sentenza, non si accontenta più di superare dalle 10 alle 14 volte la produzione reale, ma pretende di essere anche moralmente migliore di essa (a seconda delle traballanti, ma autenticamente oggettive valutazioni degli addetti ai lavori, già nel 2008, ad esempio, sommando la dimensione del mercato dei derivati (668mila miliardi di dollari) alla filiera della finanza più “tradizionale” (167mila miliardi di dollari), scopriamo che il rapporto di potenza tra finanza in generale e Pil mondiale (60.600 miliardi di dollari) era di 14 a 1. Oppure ancora, tanto per continuare a cavalcare l’incorruttibilità dell’assoluto numero: il valore dell’import-export mondiale è di 15.000 miliardi di dollari l’anno, la stessa cifra di "denaro" che il commercio delle valute con finalità speculative riesca a movimentare in meno di una settimana). Riducendo quindi all’osso la spigolosa questione: gli Usa tengono per le palle l’Argentina e il suo popolo. O meglio: Wall Street e la Borsa declinata nel suo senso moderno, quella che Simmel chiamava profeticamente il regno della “razionalità pura” (zweckrational), avendo vinto il rapporto numerico di forza con l’economia reale può, d’ora in avanti, avere l’ultima parola su decisioni capaci d’incidere radicalmente sul benessere economico dei popoli e delle vecchie nazioni. E’ d’altronde la logica conseguenza della forma mentis che l’etica capitalista ha operato sulla percezione degli uomini (per la verità il rapporto andrebbe invertito: l’uomo ha trovato, dopo un peregrinare durato qualche millennio, un pensiero a cui sottoporsi, che lo guidi “assolutamente”, certo e verificabile. Così da poter finalmente coronare il sogno d’essere schiavi nell’autoillusione del contrario. E l’ha reificato, perversamente, addirittura al di sopra di sé stesso: tutto viene così ritradotto in termini razionali, quantitativi, in denaro. Per dirla con Rifkin: “in tutta l’età moderna il valore degli individui è stato misurato con il valore di mercato del proprio lavoro”). La non-cultura del calcolo e della contabilità, del virtuale computistico, del mezzo appropriato ai fini, della téchne, della razionalità e della misurazione dell’intero esistente è finita, in un cortocircuito ossimorico, per produrre paradossalmente un informe “qualcosa” del tutto irrazionale (si pensi, quale astrazione simbolica di tale schizofrenia del cogito, ai Financial Futures o alle opzioni knock-out, scommesse sulle scommesse, o sul nulla: il futuro. Ormai si traffica e si vende ciò che non esiste). La dimostrazione di come la razionalità astratta, pura, in barba ad ogni principio di realtà, abbia prodotto paradossalmente un mondo inverosimile e irrazionale, nemico mortale dell’uomo, ci viene suggerita dall’andamento delle borse mondiali, che hanno già ampliamente superato i livelli pre-crisi e quello dell’”economia reale” che, al contrario, ancora langue. Si pensi ancora, quale esemplare scissione tra il meccanismo finanziario e l’umanità presa metaforicamente nei propri bisogni, anche al “venerdì nero” del marzo 1996 di Wall Street. L’8 marzo la Borsa newyorkese crollò, trascinando nel barato le consorelle minori europee, alla notizia che nel febbraio precedente si erano creati più di 700mila posti di lavoro. Pochi anni prima l’indice Dow Jones salì alle stelle per una proiezione di segno opposto: la Xerox licenziò decine di migliaia di lavoratori per “efficientare” i propri utili (ciò che è successo anche, per rimanere più vicini alla stringente attualità, anche qualche giorno fa con le azioni della Microsoft, i cui valori sono saliti precocemente alle stelle dopo l’annuncio del taglio di 18.000 posti di lavoro a seguito dell’acquisizione di Nokia). Ci stiamo uccidendo con le nostre stesse mani, e andiamo allegramente incontro al fatal destino con la sfrontatezza di un Re Mida che nulla ha imparato dalla propria protervia e ingordigia.
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