L’unica cosa chiara nella crisi ucraina è la mancanza di una seppur pallida strategia coerente da parte di UE e USA. Questo potrebbe essere letto come l’assenza di coordinamento oppure, molto più plausibile, come la semplice constatazione che, in questa situazione specifica, gli interessi europei non coincidano con quelli USA e di come, in maniera più ampia, è probabile si stia assistendo ad una svolta nei processi delle relazioni internazionali che Putin ha avuto il merito, strategicamente parlando, di portare alla luce in tutta la sua ampiezza, e di usare a proprio vantaggio per fermare la politica aggressiva di USA e Paesi baltici.
Nel negoziato di Minsk è stato chiaro come la UE abbia voluto ribadire la centralità del proprio ruolo andando a trattare con i primi ministri di Germania e Francia (sul fatto che non sia stata nemmeno presente Lady PESC ci sarebbe molto da dire) un problema che la vede per prima interessata e coinvolta. Tanto politicamente quanto economicamente.
E se è vero che per alcuni l’accordo ha prodotto un vantaggio di fatto della Russia sugli alleati, va inquadrata la cosa in un’ottica più ampia che non metta al centro le schermaglie tra Obama e Putin, ma piuttosto gli interessi europei di salvaguardare un mercato vitale come quello con Mosca.
Lo Zar ha abusato di una vacanza di potere nell’area per testare la reazione degli avversari, rei di aver avuto l’ardire di provare ad allargare i confini NATO fin sotto il balcone di Vladimir Putin. Se la reazione può definirsi contraria al diritto internazionale, l’azione che l’ha scaturita, di suo, può considerarsi antitetica alla logica e alla geopolitica. E questo in Europa lo sanno tutti.
Il problema al momento è l’Ucraina, ma sembra chiaro comunque che, allargando il discorso, ad essere messo in discussione sia il bilanciamento dei poteri a livello globale e le conseguenze di questo spostamento.
Gli USA, persa parte della capacità di imporre la propria politica, devono oggi rapportarsi con un nuovo modello di relazioni che tenga conto degli scenari mutati e del peso che all’interno di questi hanno quella che Henry Kissinger definisce nel suo “Does America need a foreign policy?” regionalizzazione. In sostanza, un nuovo ordine all’interno del quale le tendenze locali ricoprono un peso maggiore che non quelle internazionali, e con cui i grandi attori hanno il dovere di raccordarsi e, prima ancora, confrontarsi.
Esempio perfetto di quanto detto è il caso delle Primavere Arabe. Scarsa conoscenza del sostrato culturale e delle dinamiche sociali hanno portato a supportare rivoluzioni che hanno avuto, nella stragrande maggioranza dei casi, un risultato uguale se non peggiore a quello di partenza. L’incapacità o l’impossibilità di gestire la crisi, ha lasciato fermentare un clima ostile al cambiamento e ai suoi promotori, causando in alcuni casi veri e propri massacri nella totale impotenza di USA e UE colpevoli di non aver previsto un tale risvolto.
Oggi la Germania che tratta con la Russia è evidentemente un’evoluzione di questa filosofia e lo stesso dicasi per i rapporti sempre più stretti che la stessa Repubblica Federale Tedesca intrattiene con la Cina – altra potenza che fa del regionalismo un dogma – interessata a sganciare Berlino dall’abbraccio di Washington.
Gli interessi specifici, che si spera siano tanto tedeschi quanto comunitari, stanno avendo la meglio sia sulle pretese USA (che evidentemente non conoscono appieno le conseguenze che provocherebbe la loro politica), quanto sulle legittime aspettative del popolo ucraino il quale, alla fine, sarà il vero e unico attore a dover pagare le conseguenze di questo Risiko a grandezza naturale.
Luca Arleo