La cultura sfama

Creato il 23 luglio 2012 da Tabulerase

«La cultura non si mangia», diceva due anni fa l’allora ministro dell’economia del governo Berlusconi, l’onorevole Tremonti. E senza cadere in un linguaggio così scadente, per difendere i propri provvedimenti e giustificare i tagli alla cultura, chiunque abbia avuto incarichi governativi l’ha forse almeno pensato.

La battuta infelice di Tremonti, a un frettoloso ascolto senza nessuna analisi, potrebbe essere populisticamente condivisa. Qualcuno potrebbe pensare “non posso farmi un panino alla cultura”, ma l’industria culturale e della creatività forma il 4,9% del Pil, occupa 1.400.000 persone (il 5,6% del totale) e coinvolge 400.000 imprese. E frutta ogni anno 76 miliardi di euro.[i]

Nonostante questi numeri e l’immenso patrimonio artistico / culturale che risiede nel nostro paese, non è mai nato nessun movimento serio che difendesse strenuamente il disinteresse del potere su questo inestimabile valore, che sono sicuro se fosse presente in altre latitudini, avrebbe avuto diverse attenzioni e uno “sfruttamento” economico di portata sostanzialmente diversa. Forse gli italiani dimenticano che dopo la seconda guerra mondiale in Italia l’analfabetismo raggiungeva percentuali elevate. Anche grazie alla tv (quella tv), che in quel tempo svolgeva anche una funzione pedagogica, quindi culturale, molti italiani impararono la lingua, a scrivere e leggere; il paese, con un tasso culturale più equamente distribuito, acquisì un valore indotto, che veniva dalla capacità di ogni individuo, di avere una più consapevole conoscenza del mondo che lo circondava, con una ricaduta benefica sulla società e quindi sull’economia. Ma negli anni i portatori delle idee del “fare” sono prevalsi e, forti del potere acquisito, sono riusciti a iniettare, nelle menti dei più, il messaggio che avremmo vissuto in un benessere collettivo, producendo sempre più, sempre più. Chi con flebile voce, invece, opponendosi a questo modo di pensare, sosteneva che non si vive di soli numeri, veniva deriso, quando gli andava bene. Oggi a livello globale questa crisi economica ha certificato la fine di questo sistema e, nessuna ricetta, scritta dagli stessi dottori del “fare” che non hanno previsto la malattia, ha prodotto rimedi.

“Chi cerca rimedi economici a problemi economici è su falsa strada; la quale non può che condurre se non al precipizio. Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale”.

A chi toccherebbe, allora, assumere l’iniziativa per portarci all’infuori di questa secca, addossandosene oneri e responsabilità?

Ai “riformulatori”, coloro che “hanno la funzione di mettere a fuoco ciò che più è significativo e, nel contempo, lo fanno rivivere sotto una veste nuova; rivelano un retroterra culturale che stabilisce quello che conta e che dà un senso a ciò che si fa”, e ancor di più ai “riconfiguratori”, coloro che “trasformano una cultura in modo così radicale che, per risultare comprensibili, non possono più basarsi su un linguaggio esistente e su pratiche condivise. Di conseguenza, spesso non vengono capiti dalla gente della loro stessa cultura [...]”[ii].

Dovremmo, quindi, guardarci intorno e, prestare attenzione verso chi si sta sforzando di parlarci, anche se con una “lingua” a noi incomprensibile, perché ha finalmente qualcosa da dirci che vale la pena di essere ascoltato piuttosto che l’unico pensiero che da troppo tempo, come un disco rotto, ci viene proposto.


[i] Rapporto 2012 sull’Industria culturale in Italia pubblicato da Symbola e Unioncamere.

[ii]  Ogni cosa risplende, di H. Dreyfus e S. Dorrance Kelly, Einaudi, 2012


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