La dignità del lavoratore è direttamente proporzionale al...
Creato il 16 dicembre 2013 da Lostilelibero
La dignità del
lavoratore è direttamente proporzionale al suo potere d’acquisto.
Il lavoratore, sfavillante
conquista della contemporaneità, vede finalmente riconosciuto il suo operato
all’interno della propria società di riferimento. Dopo il banausòs greco antico, passando per il laboratores della società tripartita medievale, fino al sottopagato operaio
vittoriano, il
lavoratore è finalmente riuscito ad ottenere oggi quel prestigio collettivo
tanto anelato. Il lavoro, come segnala anche il primo articolo della “nostra”
Costituzione, è ormai diventato dogma irrefutabile: – e chi potrebbe oggi
mettere per un attimo in discussione tale aeterna
veritas? -. Il lavoro consente di “vivere”!
Del resto lo aveva anticipato, in
maniera magari più colorita, anche il philosophe
Celentano! Eppure questo nuovo stravagante mito, così lontano dall’immaginario
collettivo che ha segnato tutte le “epoche” che ci hanno anticipato – il lavoro
veniva disistimato perché considerato lo spazio dell’assoggettamento al bisogno
(motivo per cui il nobile non lavora) -, qualificando il “vissuto”, entra in
una sorta di schizofrenico cortocircuito proprio con quell’uomo che lo dovrebbe
realizzare.
Sembra infatti che laddove ci sia
il lavoro l’uomo latiti, o quantomeno che non sia necessario, se non
addirittura dannoso e nocivo per quell’altro “idolo”, tutto contemporaneo, che ha preso il nome di
“produttività”. Il salariato dei nostri giorni, la risorsa umana – per usare
un’espressione meno vetusta – pare sfumare dal passato personificando i
contorni di quell’uomo senza qualità di
musiliana memoria, composto di qualità senza l’uomo, ove la presunta autosufficienza di
tali qualificazioni prescinde da colui a cui esse fanno riferimento: il
soggetto, o meglio l’autore che le vivifica.
La “qualità”, qualsiasi essa sia, assume quindi un duplice valore
sublimante per l’odierna etica del lavoro: se da una parte, a livello
personale, permette di trovare una collocazione capace di dare al lavoratore un
“carattere identificabile”, cosicché possa anch’egli finalmente ansimare: - ho
dato anche io il mio contributo alla collettività!- (quell’umanità però,
fantozzianamente, non è umana e non ringrazia). Dalla parte che pertiene invece
all’interesse più spicciolo, permette a quest’uomo la sussistenza materiale e
l’indipendenza economica (che significa, al netto dei casi borderline, liberi di riempire il proprio tempo libero con gli
oggetti ed i “de-vertimenti” più effimeri e frivoli).
Dividersi sempre di più,
polverizzarsi in frantumi “qualificanti”, farsi progressivamente più piccoli
per impedire alla vita di colpirci in quanto interi. Scindere ed atomizzare il
proprio essere “sé stessi” in un groviglio di porzioni slegate tra loro per
potersi così rintanare nelle più nascoste segrete, nel tentativo di rifuggire,
ancora una volta, dalla vita. L’uomo “curriculum
vitae”, iper-qualificato e dinamico, si comporta come quei vermi che,
subodorato il pericolo, si contraggono e intirizziscono per diminuire la
superficie che può essere colpita.
E così se sfortunatamente
fallissero in una loro “qualifica” il loro orgoglio personale non subirebbe nessun contraccolpo e ogni
presunto fallimento sarebbe solo un fallimento particolare. Il fluttuare delle qualifiche
(la riqualificazione tanto cara a Sindacati e governi progressisti e moderni),
infatti, consente ad un uomo
“parziale” di subire esclusivamente “sofferenze” e “sconfitte” parziali. Come
dire: egli è un po’ di tutto, ma mai un tutto che sia anche signore delle
proprie “qualità”. Non sarà un caso se Musil stesso lo descrive facendone
risaltare la mancanza di carattere, il suo essere un non-essere informe, una
banderuola in balia delle correnti, un uomo “così e così” : “questo
adora il denaro, l'ordine, la scienza, il calcolare, il misurare e il pesare,
ossia in fin dei conti lo spirito del denaro e dei suoi affini, e nello stesso
tempo lo deplora. Mentre durante le ore di lavoro martella e conteggia, e fuori
di quelle si comporta come un'orda di bambini, sbalestrata di eccesso in
eccesso dall'incalzante problema: e ora cosa facciamo”.
Frantumare la totalità e con
essa l’uomo è infatti solo l’ultima “furbata” per rendere la vita meno faticosa
e più “semplice” (nel tedesco la parola “schlecht” (cattivo) è
prossima a “schlicht” (semplice)).
Un uomo simile
non può quindi non abbracciare la tesi liberal-capitalista che anima quelle
stesse imprese che gli consentono di “vivere”. Anche per l’”uomo senza qualità
iper-qualificato” infatti, la tesi “morale” da seguire è la stessa delle
aziende a cui ha voluto affidare l’onere della propria “dignità”: massimizzare
i profitti e ridurre i costi! Tradotto nella lingua degli uomini: ridurre le
sofferenze ed aumentare i de-vertimenti.
La vita sembra
così acquistare un valore solo se il “prezzo” le viene riconosciuto da qualcuno
disposto a pagarlo. Un “prezzo” che sembra poter essere saldato esclusivamente col
lavoro.
In questa nuova
Cacania del benessere, solo il lavoro può quindi restituire una dignità ad un
uomo che si vuole prima di tutto dipendente, per cui la vita, come una merce
cerca di trovare la propria collocazione dove c’è una domanda corrispondente, trova
il suo giusto prezzo solo sul mercato del lavoro (come quella delle vacche può
trovarlo sul mercato dei bovini).
All’autonomia
dell’homo faber preindustriale, che poteva
racchiudere la propria attività manuale nel prodotto finito, abbiamo sostituito
l’alienato lavoratore “qualificato” che, da solo, non sa fare quasi nulla.
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