Sì, possiamo dire di tutto, ma dobbiamo riconoscere che la crisi è strutturale e non può essere risolta all’interno del recinto della tradizionale politica o in quello del riformismo più o meno ipocrita degli ultimi vent’anni. Bisogna prendere atto che l’aumento di produttività e di competitività realizzato a scapito di retribuzioni, orari di lavoro, diritti e tutele non solo è eticamente repellente e del tutto contrario al progresso immaginato, ma è esattamente il motivo della crisi, non la sua causa e men che meno il suo rimedio. Il fatto è che a parità di produzione c’è sempre meno lavoro, che l’equilibrio in qualche modo raggiunto dal capitalismo industriale dentro la cui logica era necessario che le merci massivamente prodotte fossero massivamente acquistate, è completamente saltato, lasciando spazio a un capitalismo finanziario dedito alla creazione di denaro fittizio, la cui massima preoccupazione è quella di evitare i contraccolpi della disoccupazione sempre più strutturale attraverso imposizione di oligarchiche, creazione di nemici e destabilizzazione geopolitica, ma disposta persino alla guerra pur di rimanere al potere.
La realtà, peraltro ormai delineata a livello scientifico da molti studi oltre che supportata dai dati empirici, è che la diffusione delle tecnologie elettroniche e robotiche sta espellendo dal lavoro specializzato e competente un numero enorme di persone e che al contrario di quanto si ipotizzasse in passato, il settore terziario non riesce ad assorbire il surplus anche perché la stessa rivoluzione tecnologica sta facendo strage di posti pure nei servizi. Chi comprerà dunque i prodotti? Al contrario di quanto si pensa o viene detto il problema non è affatto la flessibilità che anzi diminuisce drasticamente nei settori più complessi e a massima concentrazione di sapere. La flessibilità e la precarietà sono invece considerate consustanziali oltre che opportune alle attività di basso livello che ancora non sono state intaccate dalle macchine e per le quali si richiede una modesta esperienza e un sapere minimo. Si tratta sostanzialmente di una favola per aumentare i profitti per alimentare la caldaia finanziaria, ovvero quella dove brucia il capitale fittizio.
Siamo dunque a uno snodo epocale di cui la crisi generalizzata nella quale stiamo vivendo non è che un effetto, dapprima nascosto dalla globalizzazione, ma infine deflagrato, man mano che si andavano esaurendo gli eserciti di riserva a basso e bassissimo costo in Asia e in altre aree del mondo. Come uscirne fuori senza mettere in conto a medio e forse breve termine una guerra distruttiva che consumi molta forza lavoro e con essa la civiltà stessa? La soluzione ovvia, a meno di non immaginare una sorta di luddismo del terzo millennio o di rifugiarci in qualche arcadia, sarebbe quella di diminuire drasticamente gli orari, aumentare i salari, ridare dignità, tutele e certezze anche al lavoro meno specializzato, vale a dire l’esatto contrario di ciò che si sta facendo oggi. Solo così si potrebbero risollevare le sorti di una domanda aggregata strutturalmente in calo e creare dunque nuove attività. Questo però – oltre ad avere conseguenze enormi sul terreno geopolitico – andrebbe tutto a discapito dei profitti e introdurrebbe il germe di una fuoriuscita dal capitalismo, la maturazione di nuove e diverse idee di società, il ritorno ad aspirazioni ormai abbandonate come ferri arrugginiti. Perciò si fa tutto il contrario di ciò che si dovrebbe nella speranza che basti un maggior controllo sociale, una trasformazione delle società democratiche in autoritarie per mantenere il controllo e l’egemonia culturale.
E’ in questo contesto che si situano sia le ridicole sceneggiate di Renzi, i non sense dei suoi consiliori, l’acquiescenza servile di un milieu politico intento alle sue camarille. Ma dove si situano anche le proposte di reddito di cittadinanza o reddito sostitutivo o sussidio di disoccupazione a tempo indeterminato o integrazione di reddito (il ventaglio è ampio e politicamente molto differente): è fin troppo chiaro che a qualcosa di questo genere bisognerà arrivare necessariamente, tuttavia per paradossale che sia queste misure tamponano il problema, ma se impostate male non lo risolvono affatto, anzi possono essere, come del resto accade in Germania con i mini jobs, surrettiziamente funzionali a certe logiche di umiliazione del lavoro che lo stato finisce per supportare con i soldi pubblici. Ciò che occorre è davvero un mondo nuovo.