La disoccupazione giovanile è in aumento in tutto il mondo
Creato il 20 settembre 2011 da Daven @Daven93Nei momenti difficili, i giovani sono spesso i primi a rimetterci. Hanno meno esperienza e meno preparazione, e in molti paesi possono essere licenziati più facilmente rispetto ai lavoratori più anziani. Quindi sono i bersagli preferiti dei datori di lavoro che vogliono tagliare le spese, anche se il fatto che hanno stipendi più bassi scoraggia in alcuni casi il licenziamento. In molti dei paesi dell'Ocse, il tasso di disoccupazione giovanile è il doppio di quello del resto della popolazione. In Gran Bretagna, Italia, Norvegia e Nuova Zelanda è almeno di tre a uno. In Svezia la disoccupazione tra i ragazzi dai 15 ai 24 anni è 4,1 volte superiore a quella dei lavoratori tra i 25 e i 54 anni.
Il numero di disoccupati tra i 15 e i 24 anni è il più alto mai registrato da quando l'Ocse ha cominciato a raccogliere i dati nel 1976. Non solo: anche il numero di giovani che hanno rinunciato a cercare lavoro è al massimo storico. E la crescita limitata, i programmi di austerità e il ritiro di provvedimenti di stimolo alla creazione di nuovi posti di lavoro fanno temere un ulteriore aumento della disoccupazione. In genere i giovani sono avvantaggiati durante la fase di ripresa: sono i primi a uscire dal mondo del lavoro ma anche i primi a rientrarci. Questa volta, però, la ripresa non c'è stata. Negli Stati Uniti l'aumento dei posti di lavoro dal 2007 a oggi è stato più lento che dopo la recessione degli anni ottanta, ed è partito da un punto più basso. In alcuni paesi lo sbilanciamento del mercato del lavoro a favore di chi ha già un impiego impedisce l'accesso dei giovani ai pochi nuovi posti che si creano.
La disoccupazione giovanile ha costi diretti: più sussidi di disoccupazione, meno entrate fiscali, spreco di risorse. In Gran Bretagna uno studio condotto dalla London school of economics (Lse), dalla Royal bank of Scotland e dal Prince's trust ha calcolato che 744mila giovani disoccupati costano 155 milioni di sterline alla settimana (180 milioni di euro) in sussidi e mancata produttività.
Ma quando i giovani non lavorano, aumentano anche alcuni costi indiretti. Uno è l'emigrazione: i giovani ambiziosi che non vedono prospettive per il futuro spesso sono più disposti a cercare opportunità altrove rispetto a chi ha una famiglia da mantenere. In Portogallo, dove il tasso di disoccupazione giovanile è del 27 per cento, il 40 per cento dei giovani tra i 18 e i 30 anni è disposto a emigrare per trovare lavoro. In Italia la continua fuga di cervelli è uno dei sintomi più preoccupanti di un'economia stagnante. Un altro costo è la criminalità. Dire che la disoccupazione giovanile è responsabile dei disordini scoppiati quest'estate in Gran Bretagna forse è affrettato. Ma dire che non esiste alcun rapporto tra disoccupazione e criminalità è ottimistico. I maschi giovani sono di solito più inclini a infrangere la legge rispetto al resto della popolazione. Avere più tempo libero, più motivi di rabbia e meno da perdere sono incentivi ulteriori. Alcuni ricercatori hanno individuato un rapporto di causa-effetto tra l'aumento della disoccupazione giovanile e quello della criminalità, in particolare dei reati contro la proprietà e di quelli legati alla droga. Se poi questi reati sfociano in un periodo di detenzione, le prospettive di lavoro sfumano del tutto. Infine ci sono gli effetti sui singoli individui. I giovani sono particolarmente colpiti dalle conseguenze economiche ed emotive dell'essere senza lavoro, dice l'economista della Lse Jonathan Wadsworth. Le ricerche dimostrano che il modo migliore per prevedere se una persona resterà disoccupata è sapere quando e quanto lo è stata in precedenza. In Gran Bretagna chi rimane per tre mesi senza lavoro prima dei 23 anni, tra i 28 e i 33 sarà disoccupato per 1,3 mesi in più di chi non è mai stato disoccupato da giovane. Da alcune ricerche condotte in Gran Bretagna e negli Stati Uniti è emerso che la disoccupazione giovanile lascia sul salario una "cicatrice" indelebile. Più lungo è il periodo di disoccupazione, maggiore è l'effetto. Prendiamo due uomini con lo stesso grado di istruzione, la stessa zona di residenza, lo stesso livello di istruzione dei genitori e lo stesso quoziente di intelligenza. Se uno dei due rimane disoccupato per 12 mesi prima dei 23 anni, dopo dieci anni può aspettarsi di guadagnare il 23 per cento in meno dell'altro. Per le donne il divario è del 16 per cento. Anche se si riduce, questa "cicatrice" non va mai via. A 42 anni il divario è del 12 per cento per le donne e del 15 per gli uomini. Finora la crisi non ha fatto aumentare questi lunghi periodi di disoccupazione giovanile: nei paesi dell'Ocse, l'8o per cento di quelli rimasti disoccupati è tornato a lavorare entro un anno. Ma la tendenza potrebbe cambiare. Dopo un periodo di disoccupazione, la tentazione di accettare qualsiasi lavoro può essere forte. L'effetto cicatrice dimostra che questo fatto ha conseguenze durature, e che le politiche destinate a contenere la disoccupazione giovanile a volte aggravano la situazione. La Spagna, per esempio, che ha varato un piano di rinnovo dei contratti a termine per dare qualche possibilità di impiego ai giovani, dovrebbe tener conto dell'esperienza negativa del Giappone, dove, all'inizio del decennio scorso, i giovani disoccupati da più tempo sono stati incanalati in posti "non regolari", con un salario più basso e meno opportunità di imparare e di fare carriera. I datori di lavoro che offrivano posti di livello più alto di solito preferivano i neodiplomati o i neolaureati ai disoccupati o ai sottoccupati, così quel gruppo di "non regolari" si è trovato con meno prospettive di ottenere un lavoro permanente e un buon stipendio. Un recente rapporto dell'Ocse li ha definiti i "giovani lasciati indietro". E gli stessi datori di lavoro ammettono che una percentuale sproporzionata dei lavoratori del "decennio perduto" del Giappone soffre di depressione e di stress.
La disoccupazione in genere comporta un livello di infelicità che non può essere spiegato solo con la mancanza di reddito. È legata anche a una minore aspettativa di vita, a maggiori probabilità di infarto e di suicidio. Da uno studio condotto sui lavoratori della Pennsylvania che avevano perso il posto negli anni settanta e ottanta è emerso che il peso della disoccupazione sull'aspettativa di vita è maggiore per i giovani che per i vecchi. Gli statunitensi che entrarono nel mondo del lavoro durante la grande depressione rimasero per decine di anni meno sicuri di sé e meno ambiziosi.
E gli effetti sociali non finiscono qui, c'è anche la "sindrome del nido pieno". Nel 2008, il 46 per cento dei giovani dell'Unione europea tra i 18 e i 34 anni viveva con almeno un genitore. Nella maggior parte dei paesi, quelli che erano rimasti a casa avevano più probabilità di essere disoccupati di quelli che se n'erano andati. L'effetto è particolarmente rilevante nei paesi del sud, dove la disoccupazione è alta e il calo della fertilità comporta famiglie più piccole: da un recente studio del sindacate italiano Cgil è emerso che più di sette milioni di italiani tra i 18 e i 35 anni vivono ancore con i genitori. Dal 2001 a oggi, in Gran Bretagna un uomo su quattro tra i 20 e i 30 anni e una donna su sei, sono "tornati a casa" pel un certo periodo. Questo tipo di cambiamento si riper cuoterà, nel bene o nel male, sulle generazioni successive e, se i giovani continueranno a vivere sempre di più in famiglia, si diffonderà ulteriormente.
In alcuni paesi, in particolare del sud Europa, i governi dovrebbero soprattutto aprire i mercati del lavoro che lasciano fuori i giovani. Nei paesi dove questi mercati sono più flessibili, si tende soprattutto a puntare su una "maggiore qualificazione". Ma neanche questa è una soluzione ideale. Le università possono essere posti dove migliorare la propria preparazione ma anche dove aspettare che passi il momento difficile, perciò gli studenti ci rimangono sempre più a lungo. Dal 2008 a oggi le scuole di specializzazione statunitensi hanno ricevuto il 20 per cento in più di domande di iscrizione. Eppure, questi studenti più preparati non hanno necessariamente più prospettive di lavoro. Avere una laurea aumenta le probabilità di trovare un impiego, ma tra i laureati statunitensi la disoccupazione è al livello più alto dal 1970. Anche la formazione professionale ha i suoi rischi. Il Wolfreport, uno studio del 2011 sull'istruzione professionale in Gran Bretagna, fa osservare che una formazione sbagliata può addirittura far diminuire le prospettive di lavoro. Quasi un terzo dei giovani britannici tra i 16 e i 19 anni è iscritto a corsi professionali di basso livello che non hanno quasi nessun valore nel mercato del lavoro. E sprecare un anno o due per seguire questi corsi riduce i guadagni per tutta la vita, a meno che i progetti non prevedano anche un periodo di apprendistato. In Germania, che da questo punto di vista è considerata da molti un modello da imitare, un quarto dei datori di lavoro offre formalmente programmi di apprendistato, e quasi due terzi degli studenti ne usufruiscono. Quelli che frequentano le scuole professionali lavorano part time nelle aziende come apprendisti retribuiti per due o quattro anni. I costi sono divisi tra le aziende e lo stato, e spesso alla fine l'apprendistato si trasforma in un posto di lavoro a tempo pieno. In Germania il tasso di disoccupazione giovanile è del 9,5 per cento, uno dei più bassi dell'Unione europea. Forse il modello dell'apprendistato è particolarmente adatto all'economia tedesca, che si basa essenzialmente sulle esportazioni e su una miriade di fabbriche specializzate. Non è detto che sia facile esportarlo in paesi con un'economia basata sui servizi. Negli Stati Uniti, per esempio, mancano le istituzioni - sindacati forti, aziende disponibili e governi efficienti - che hanno garantito il successo del modello tedesco. Progetti simili devono anche superare ostacoli culturali. Il programma scuola-lavoro di Bill Clinton, ispirato al modello dell'apprendistato, è stato deriso e considerato un tipo di istruzione di qualità inferiore. Questo modello potrebbe essere inutile per i giovani sotto i 25 anni che provengono da famiglie in cui la disoccupazione è la norma e che non hanno modelli a cui ispirarsi. "Questi ragazzi hanno bisogno di programmi mirati e personalizzati", spiega Paul Brown, uno dei direttori del Prince's trust. "I più bisognosi rischiano di sfuggire tra le maglie dei programmi che si rivolgono a tutti ".
Tratto da The Economist
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