La disoccupazione ti resta addosso

Da Giovanecarinaedisoccupata @NonnaSo

Ci penso ormai da tanto, tanto tempo. Beh, più o meno come tutti voi, da quando sono restata disoccupata e ho cominciato a cercare lavoro, e ho capito che qualcosa era cambiato. Qualcosa di grosso, qualcosa di essenziale.

Io. Ma non solo.

L’intorno a me. Ma non solo.

Il modo che avevano gli altri di vedermi, il modo che ho io di definirmi.

E ho capito anche che da questa strada non si torna indietro.

Primo perché difficilmente si può. Secondo perché se si è come me.. non si vuole.

Mai e mai più sarò in grado, ad esempio, di vedere il “fascino” di un impiego in ufficio: 8 ore di tormento alla scrivania, a sorbirsi le cattiverie e stupidaggini altrui (come minimo), una schiavitù (del corpo e della mente) legalizzata, e resa “affascinante” da quel minimo di sicurezza economica e psicologica che ne deriva. Uno stipendio fisso, contributi pagati, il privilegio di darsi malati con tutti gli annessi e connessi, la macchinetta del caffè.

Ora: io il caffè me lo faccio a casa, mi gestisco il mio tempo (per la maggior parte del quale mentre una mano lavora l’altra accarezza la gatta placidamente addormentata sulle mie gambe)… capite che una volta che vediamo “l’altra parte” non si torna più indietro? E chi ce lo fa fare?!

Ma questo era solo uno degli indizi che mi hanno fatto capire quanto sono cambiata. L’altro, è il rendermi conto di quanto sia cambiato il mio approccio nel modo di relazionarmi e pensarmi in relazione agli altri, particolarmente sotto il profilo dell’incasellamento sociale. In poche parole: mi sento sempre almeno un po’ disoccupata.

Anche quando trovo un lavor-etto-ino (che al giorno d’oggi non c’è “lavoro”, ma una vasta teoria di diminutivi dello stesso: lavoretti, lavorini, lavoricchi, lavoracci… ma un lavoro vero, uno di quelli che ti guardi in faccia e dici “ohhh!” – anche perché, forse, il prezzo sarebbe troppo alto, come dicevamo prima? Non so, ma lasciatemi il dubbio-).

Dicevo, anche quando trovo un lavoretto, una parte di me si sente ancora disoccupata. Strano vero? La mente che ormai si è abituata a quella etichetta, a quella cicatrice, che ha cominciato addirittura a portare con orgoglio.

Perché noi disoccupati si che sappiamo come va il mondo. Noi c’abbiamo le palle sotto, noi abbiamo dovuto combattere in trincea, abbiamo sofferto la fame e il freddo, i razionamenti e i bombardamenti.. insomma, noi si.

E questa cosa ci cambia dentro, in un modo lento ma inesorabile, cosicchè ti svegli una mattina, cerchi di definirti e scopri tutte queste cose: hai un lavoretto “part-time”, e forse per quello le ore che ne restano fuori ti sembrano ancora un po’ troppo disoccupate per i tuoi gusti. Hai un lavoricchio che ti aiuta tirare in qualche modo avanti, ma forse tutte quelle cose che non puoi più fare da così tanto tempo che nemmeno più te lo ricordi ti fanno ancora sentire un po’ troppo disoccupata per i tuoi gusti, o per quelli dell’opinione media (non che ce ne freghi granchè eh, però quel tarlo.. quello che ti sussurra “disoccupata..” in maniera sprezzante all’orecchio, è fastidioso, no?)

Insomma: la disoccupazione ci è restata addosso come il catrame e il petrolio resta addosso a quei poveri pellicani e gabbiani che ripescano dagli affondamenti delle petroliere. Ci ha lasciati più morti che vivi, ma non ci ha fatto la cortesia di ammazzarci del tutto. Se ne sta li, a proliferarci addosso come una zecca, una sanguisuga, un virus.

E non c’è vaccino che ci curi, proprio no, nemmeno quel siringone puntato verso il didietro con la fatidica etichetta “Lavor –etto –ino –accio –uccio” (e chi più  ne ha, più ne etichetta).