Negli anni ’60 del secolo scorso non c’erano soltanto Muhammad Ali, Sonny Liston, Joey Giardello, Rubin “Hurricane” Carter, Floyd Patterson o l’anziano Sugar Ray Robinson ad entusiasmare gli appassionati di pugilato, ma anche Emile Griffith, un welter-medio con la dinamite nelle mani e dentro il petto il cuore di un leone, arrivato alla ricerca dell’ “American dream” a bordo di una carretta del mare, dalle Isole Vergini.
C’era tuttavia qualcosa, su Emile, qualche “voce”. Si, perché nel “machissimo” mondo della boxe di allora, quel giovanotto nero (e questa era già di per sé una condizione non facile) che non si faceva mai vedere con una donna, amava i jeans stretti, le camicie colorate e disegnava cappellini per signora come secondo lavoro, destava qualche sospetto.
Insomma, si pensava che Emile, lo straordinario campione in grado di mandarti giù con un destro, fosse in realtà un.. “finocchio”.
E glielo disse uno dei suoi avversari di sempre, il cubano Benny Paret, soprannominato “Kid”, quando i due si affrontarono per la “bella” (in palio il titolo dei welter) il 24 marzo 1962 al Madison Square Garden di New York.
“Frocio”, “sei una donnetta”, gli sparò in faccia Paret, prima, nelle operazioni di peso, e dopo, insieme ai pugni, durante l’incontro. Non lo penava, non lo odiava, ma era il suo modo per innervosirlo e prendersi così qualche vantaggio psicologico.
Nel sesto round di quel match che stava perdendo, Emile andò giù, e Paret lo guardò ammiccante, lanciandogli un bacio. Fu la goccia che fece traboccare il vaso della sopportazione, nel cuore di leone di quel ragazzo venuto dalle Isole Vergini sopra una carretta del mare.
Si rimise in piedi, Emile, e nelle riprese successive cominciò ad incalzare il suo avversario ormai diventato un nemico. finché nel corso della dodicesima riuscì ad intrappolarlo alle corde e a colpirlo con tutta la rabbia e la potenza che aveva in corpo.
Benny “Kid” Paret, cubano di Santa Clara, piegò le gambe ad una manciata di secondi dal gong, franando su sé stesso.
Non perse soltanto l’incontro e il titolo.
Benny “Kid” Paret non si sarebbe mai più rialzato.
Anni dopo, Griffith volle incontrare il figlio del suo nemico di una sera e si scusò per essere venuto meno, anche lui, al codice d’onore dello sport più antico e nobile del mondo, consentendo all’odio di prendere il sopravvento. Ma fece anche altro, l’anziano campione, perché trovò la forza di dire al “machissimo” mondo della boxe e a tutti gli altri che, si, lui era omosessuale e ne andava fiero. Uno dei suoi rivali più famosi, il nostro Nino Benvenuti, si disse orgoglioso di lui.
Il pregiudizio non aveva rovinato soltanto la vita di Griffith, ma, in un certo senso, aveva stroncato anche quella di Paret.
Oggi che la comunità LGBT si trova a lottare per diritti che dovrebbero essere considerati elementari, il ricordo di quell’episodio può rappresentare un tributo ed un invito alla riflessione.
Nella foto, il match fatale tra Griffith e Paret