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Non ho mai avuto la fortuna di avere un dislessico in classe.
Le stesse parole potrei pronunciarle io. A vent’anni di distanza rimetto piede alle medie, questa volta dalla parte degli insegnanti. È tutto come immaginavo, anche il consiglio di classe: l’unica cosa a cui non avevo mai assistito, né in veste di studente né come genitore.
Esco dalla riunione stupita e incuriosita. Le frasi ricorrenti sono state “Questo è di sicuro un BES“, “lei? è una DSA certificata”, “per me ci vorrebbe un test per lui, è un sospetto DSA”.
Con un po’ di sgomento mi chiedo perché ai miei tempi nessuno era etichettato con queste sigle, e soprattutto se questi cartellini rimarrano per sempre sui ragazzi. È la curiosità e il tentativo di ricevere risposte che mi ha spinto a partecipare a una riunione organizzata dal aiD.
Partiamo con un “a volte nei test la dislessia sfugge”, cosa che mi fa pensare che ci siano molti più casi di quelli che già mi sembravano tanti. Ed ecco dissipato il mistero. Una volta, gli insegnanti brontolavano per la brutta grafia, e nessuno immaginava le patologie annesse e connesse. Forse oggi si parla troppo di bisogni educativi speciali e dislessia, ma è un bene che l’attenzione sia alta. Ora ogni anno escono nuovi test ed è per questo che è possibile diagnosticare nuove forme. Gli insegnanti hanno un ruolo chiave nella diagnosi della patologia, perché sono loro che facendo attenzione possono accorgersi dei primi segnali sospetti. Gli utenti delle neuroscienze sono gli insegnanti, perché con il loro lavoro interferiscono con lo sviluppo e l’apprendimento.
Così come fisicamente siamo tutti diversi, allo stesso modo possiamo parlare di neurovarietà. Anche lo sviluppo cognitivo segue una distribuzione normale o gaussiana, per cui assistiamo a uno spettro vario di capacità di apprendimento. Ma la scuola non è pronta e reagisce con irrigidimento, perché la scuola per definizione umilia le differenze. Perché? Perché c’è l’idea che l’apprendimento sia un processo univoco e misurabile con degli standard. Quelli che non raggiungono gli obiettivi secondo il modello standard, finiscono per essere esclusi. Tutti usano il pc, ma a scuola ci vuole un certificato per usare un computer: la scuola si oppone al cambiamento. A scuola non si possono usare neanche strumenti ausiliari per queste persone, a meno che non siano dichiarate tali. Eppure, se un bmbino ha qualche difficoltà fisica, gli si fa usare l’ascensore senza problemi. Basterebbero alcuni strumenti per permettere a tutti i bambini di apprendere.
L’errore è dovuto al fatto che conosciamo ancora troppo poco i processi di apprendimento, e quindi fatichiamo a individuare i problemi connessi e i mezzi alternativi. Noi conosciamo l’apprendimento solo come un processo per cui l’insegnante parla e lo studente ripete quello che il prof ha detto.
Ma l’apprendimento è un percorso complesso, variegato, formato da molti elementi. Per il 90% della popolazione, la capacità di parlare è un dono della natura: nessuno sa come ha fatto a imparare. Una bambina di otto anni non sa cos’è un verbo riflessivo, ma lo usa correttamente. Dice infatti ” il mio compagno di banco si chiama….” Come abbiamo fatto a impararlo? Non lo sappiamo. Non sappiamo niente di buona parte dell’apprendimento perchè è implicito, cioè sottratto alla conoscenza.
Cosa accade se ai bambini dell’asilo scambi le scarpe mentre dormono? 4 o 5 si mettono la scarpa sinistra nel piede destro al risveglio. Un gruppetto si accorge dell’errore e scambia le scarpe, infilandole correttamente. Ciò accade perché questi ultimi hanno capacità computazionali innate: hanno delle rappresentazioni mentali, sensoriali, spaziali, cioè modelli astratti che si sono formati spontaneamente. Ogni volta che hanno fatto un’esperienza, hanno formato un corrispettivo significato subsimbolico. Se questi significati subsimbolici, presi singolarmente, non vogliono dire nulla, l’insieme dei pezzetti, crea una rappresentazione con un senso. È così che funziona l’apprendimento implicito.
Ma ci sono altri sistemi che implementano questi apprendimenti. C’è un sistema di memoria a lungo termine, che è diverso da quello che ci serve per imparare i nomi: la prima si chiama via dorsale, via ventrale la seconda. Possediamo una memoria dichiarativa, che associa fatti, eventi, atti, oggetti alla parola che li descrivono.
C’è la memoria procedurale, che ci permette di fare le cose in sequenza. I pokemon si memorizzano con il sistema idiosincrasico, per le tabelline o il calendario serve un sistema di apprendimento sequenziale. Ecco perché il bambino etichettato come svogliato non impara le tabelline, ma conosce i personaggi che preferisce.
Abbiamo solo una certezza: i bambini fino a 5 anni ripetono tutto, perché riscuotono successo nel momento in cui ripetono quello che vedono fare dagli altri. E in questo modo, imparano. L’esperienza è valida per imparare solo se viene ripetuta più volte. Il problema deriva dal fatto che se una persona non ha un esito positivo, un successo dalla propria esperienza, non la ripeterà, e per questo non ci sarà apprendimento.
Servono strumenti ausialiari: la scuola non deve proporre un unico modello di successo. La legge chiede che venga redatta una metodologia didattica personalizzata. Ci vogliono misure compensative (cioè gli strumenti ausiliari) in modo che non ci siano più misure dispensatrici da prendere (tu questo compito non lo fai perché non riesci).
I disturbi nell’apprendimento implicito tendono a compensarsi nel tempo: dipende se si concede al ragazzo il tempo di apprendere e se nel frattempo non lo massacro psicologicamente. Bisogna dare credito a chi ha delle difficoltà: non bisogna definire il suo futuro a priori.
Aspettiamo dunque un modello di cambiamento della scuola? Ricordiamoci però che i bambini con bes e dsa non possono aspettare. Molto dipende dal singolo insegnante.
Se non riesco a imparare nel modo in cui insegni potresti insegnare nel modo in cui imparo?