LA DIVINA COMMEDIA - di Dante Alighieri

Creato il 21 giugno 2013 da Ilibri

Titolo: La Divina Commedia
Autore: Dante Alighieri
Anno: 1304-1321

TRE DONNE A CONFRONTO

La Divina Commedia ha da sempre suscitato un notevole interesse da parte della critica e dell’ingente pubblico dei lettori. A tutt’oggi resta infatti un indubbio fondamento della Nostra Letteratura apprezzatissimo e studiatissimo anche all’estero. Pochi però si sono soffermati sull’importanza e sulla rivalutazione che Dante assegna alla figura femminile all’interno di tale opera. Se si considera infatti il contesto storico in cui Dante visse, un medioevo ancora buio e rigorosamente ancorato ai dettami della Chiesa, non ci sarebbe da stupirsi nell’incontrare figure di donne ben relegate ai margini della società, e viste ancora come «pericolose» e quasi di intralcio nella strada che dovrebbe portare l’uomo a Dio. La rivoluzione dantesca, già nota dal punto di vista linguistico, compie però grandi passi in avanti anche dal punto di vista dei contenuti, stravolgendo topoi fino ad allora considerati inviolabili. Secondo Dante, infatti, la donna non solo non è necessariamente fonte di peccato o di traviamento, ma può divenire essa stessa fonte di insegnamento, nonché tramite tra l’uomo e Dio. Si pensi, per esempio, all’ultimo canto del Paradiso e alla sublime invocazione alla Vergine operata da San Bernardo, affinché il pellegrino Dante possa giungere alla piena contemplazione del divino. Solo attraverso l’intercessione di Maria, infatti, può compiersi il miracolo della visione di Dio.

Sono altre però le figure femminili su cui intendiamo ora soffermarci e, nello specifico, Francesca da Rimini, Pia de’ Tolomei e Piccarda Donati. Tre donne differenti fra loro per costume e per vicende di vita, accomunate però dal medesimo progetto salvifico che la Commedia intende operare nell’umanità. Fu Dante stesso, infatti, all’interno dell’Epistola XIII indirizzata a Cangrande della Scala, a sostenere come la sua opera, pur parlando dell’ultraterreno, dovesse essere utile ai vivi, affinché, una volta scoperti i pericoli di una vita dedita al peccato, potessero redimersi, prima che fosse troppo tardi: «…quod finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Ep XIII 39).

La vicenda di Paolo e Francesca è ben nota e occupa forse tra le pagine più belle dell’intera opera dantesca. Francesca è la protagonista indiscussa del Canto V dell’Inferno; a lei viene infatti concessa la parola per gran parte del canto; a lei inoltre viene affidato il compito di raccontare al viator Dante, e quindi a tutti noi, ciò che condusse lei e il cognato a compiere il «doloroso passo». Non bisogna dimenticare che il destino di Paolo e Francesca non solo è compiuto, ma è irrimediabilmente senza alcuna possibilità di riscatto. Essi sono dannati alla perdizione eterna. Ciononostante la loro vicenda e il racconto di essa possono essere utili ai vivi e di ammonimento per essi: ecco perché diviene necessario affidare a Francesca, seppur dannata, un ruolo di primaria importanza.

…Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense".

(If V 100-107).

Nonostante l’utilizzo di forme propriamente appartenenti agli stilemi dello Stilnovo, che possono dunque indurre il lettore a provare una certa compassione per la vicenda dei due amanti, il modo attraverso il quale Francesca racconta la sua vicenda è tutt’altro che «gentile». Nella sua voce c’è la rabbia e la condanna verso colui che pose fine anzi tempo ad una relazione, che era e rimane puramente carnale: si noti infatti come Francesca parli di «bella persona», in riferimento alle fattezze fisiche di Paolo; di «piacer» come di un esplicito invito al godimento amoroso. Non si dimentichi che Paolo e Francesca non sono solamente colpevoli di adulterio, ma bensì di lussuria: all’inizio del Canto V ci viene infatti ben detto che in questo cerchio vengono puniti coloro «che la ragion sommettono al talento». La legge stilnovistica dell’«Amor, ch'a nullo amato amar perdona» non può più trovare approvazione all’interno di un’ottica cristiana, perché anch’essa deve essere sottomessa alla legge della ragione; una ragione che, per Dante, deve costantemente essere illuminata dalla luce di Dio. Le tre terzine si concludono poi con un esplicito riferimento alla condanna che attende Gianciotto Malatesta, responsabile dell’omicidio dei due cognati, punito nel Cerchio di Caina.

Differente la vicenda di un altro personaggio che Dante pone all’interno del Canto V del Purgatorio, tra coloro che sono morti di morte violenta, ma che, ciononostante, ebbero l’umiltà di rivolgersi a Dio, poco prima della loro fine.

"Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via",
seguitò 'l terzo spirito al secondo,

"ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria

disposando m'avea con la sua gemma".

(Pg V 130-136).

Pochissimo si sa su questo personaggio, sul quale la critica si è a lungo dibattuta nella ricerca di un’identità storica fondata. Ciò che ci interessa però non è tanto chi fosse Pia, quanto il fatto che Dante abbia deciso di inserirla all’interno della sua opera. A lei sono affidate poche parole, ma estremamente importanti e innovative, tanto da non rendere necessario alcun intermezzo da parte del Dante personaggio. È con lei che si conclude il canto V, ed è alla sua voce che il lettore deve prestare attenzione. Ciò che contraddistingue le anime purganti da quelle infernali è la volontà, da parte delle prime, di essere ricordate sulla terra: il loro attaccamento ad essa è spesso ancora molto forte, nonostante non siano più in vita. Solo attraverso il ricordo, e dunque le rispettive intercessioni sotto forma di preghiere da parte di coloro che sono ancora in vita, queste possono accelerare il loro percorso verso il Paradiso e dunque verso la piena salvezza. Si ricordi però come le anime del Purgatorio sono comunque già salve dalla dannazione e in parte già gaudenti della luce divina; il ricordo che hanno della terra e della loro vita precedente potrà dunque essere più o meno lieto, talvolta nostalgico, ma non potrà mai presentare un atteggiamento di astio o di risentimento. Pia non accusa difatti esplicitamente il marito della propria morte, ma lo lascia intendere a Dante e al lettore, senza aggiungere nessuna condanna nei suoi confronti, come invece aveva fatto Francesca, ancora «offesa» dal modo in cui le fu tolta la vita da colui che, a buon diritto, è condannato a giacere nel Cerchio di Caina.

Se il ricordo della vita terrena è ancora ben vivo nelle anime dell’Inferno e del Purgatorio, esso viene quasi totalmente abbandonato in quelle dei beati del Paradiso. Il legame tra essi e la loro vita passata è ormai reciso in virtù di quell’Amor, al quale ora sono congiunte in eterno. Essi possono solo fornire spiegazioni al Dante personaggio e al lettore circa il funzionamento del Paradiso ed essere portatori di insegnamenti: le loro parole infatti possono e debbono continuare ad essere di ammonimento per coloro che sono ancora in vita. Celebre il caso di un’altra donna particolare che Dante decide di inserire all’interno del I Cielo del Paradiso, il più basso e apparentemente il più lontano dall’Empireo e quindi da Dio stesso. Si ricordi però come l’Empireo in realtà, nella visione dantesca, resti la sede di tutti i beati strettamente uniti a Dio, alla Vergine e ai Santi. I primi, di volta in volta e per Grazia di Dio, sono chiamati ad occupare Cieli diversi per poter contribuire ed essere d’aiuto al viator nel suo viaggio verso la visione di Dio.

…I' fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l'esser più bella,

ma riconoscerai ch'i' son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.

Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.

E questa sorte che par giù cotanto,
però n'è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto".

(Pd III 46-57).

Le anime del paradiso non possono essere riconosciute dal poeta in quanto pure luci, paghe solamente di adorare Dio e di fare la Sua volontà. È difatti Piccarda a presentarsi a Dante; personaggio ben noto al poeta, se non altro per essere la sorella di quel famoso Forese Donati con il quale Dante trascorse gli anni della giovinezza.

"Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù", mi disse, "a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,

perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch'ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.

Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi' mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.

Uomini poi, a mal più ch'a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

(Pd III 97-108).

Il ricordo della vita passata, narrato da Piccarda, resta semplicemente un’aggiunta alla sua precedente presentazione e diviene necessario al solo scopo di illustrare al pellegrino e ai lettori i diversi gradi di beatitudine in cui è diviso il Paradiso. Nessun rancore nelle sue parole, tutt’al più una velata tristezza per il male che affligge l’umanità; un male, si noti, che non viene assolutamente identificato con precisione. Piccarda è ormai uno spirito beato, lieto di appartenere a Dio; ciò che di lei fu, ora non ha più importanza.

  

  

  

 

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