Il ragazzotto baffuto sulla ventina andava sù e giù per il campo, fischietto alla mano, maglietta e pantaloncino nero. Appena era a pochi metri da me, non perdeva l’occasione per farmi l’occhiolino. I tifosi capirono che tra me e l’arbitro c’era un rapporto di complicità. Al termine della partita, mi spiegarono che l’arbitro sarebbe uscito da tutt’altra parte.
Gli andammo incontro mentre lo scortarono fuori dallo stadio. Appena mi vide, non mancò all’appuntamento: tirò fuori dalla sacca un piccolo snack e l’aranciata in una confezione speciale per la federazione e me li cedette come sempre.
Poi mi fece divertire scendendo le scale mobili della metropolitana. Ci infilammo nelle gallerie ma quella volta non eravamo all’Edenlandia. Pensando che l’arbitro era diventato papà a vent’anni, scaravento nel tempo i versi di una canzone di oggi: “Un giorno ti dirò che ho rinunciato alla mia felicità per te; un giorno mi dirai che un padre non deve piangere mai”.
Usciti dalla metropolitana, io e l’arbitro attraversammo mano nella mano viale Cavalleggeri d’Aosta. Non c’era nessuno per strada, all’orizzonte, in direzione del mare di Coroglio, gli ultimi fili di luce. Fu la prima volta che lo chiamai per nome, io che lo aveva titolato “zio” con la mia nascita e lui fu il più giovane della famiglia ad esserlo.
Non ho mai creduto nei rapporti di parentela. I parenti sono un’imposizione sociale dell’umanità di cui mi sono disfatto nelle piccole rivoluzioni cosmiche. Credo nei legami che ciascuno di noi costruisce singolarmente con l’altro.
Io e l’arbitro mano nella mano per quarantadue anni, nell’istante di una domenica, nella conquista dell’attimo che ricomincia. Accade ancora oggi che nuota nel mare di Coroglio, alla ricerca del suo canotto a remi ormeggiato a largo del’isolotto di Nisida. Finché il buio non ci separi.