La donna che sussurrava agli specchi (estratto)

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I due seguenti estratti fanno parte del mio secondo libro dal titolo "La donna che sussurrava agli specchi". L'opera è stata pubblicata da Montecovello Editore. Per aquistare una copia è sufficiente andare sul sito dell'editore cliccando su http://www.montecovello.com/libro/da/4041462132/la+donna+che+sussurrava+... oppure su siti come IBS, libreria universitaria etc. É naturalemte possibile prenotare il libro anche in libreria. (ho scelto la categoria thriller anche se non rientra in questo canone. Purtroppo non c'erano opzioni valide)

Primo estratto

«Schh! – Sibilò Angela portando il dito indice alle labbra – siamo in chiesa, parli piano, anzi sarebbe educato non parlare affatto. Il silenzio qui è d’oro, il silenzio qui è sacro. Siamo nella casa del signore, colui che tutto vede e tutto sa. Lui ci guarda…che lo faccia dall’alto dei cieli o dall’alto della croce, o persino dalla profondità degli abissi, lui ci scruta…ci guarda sempre, ci osserva affinché si accerti che tutto sia fatto in suo nome, ed in nome di suo padre Dio onnipotente. Rendo grazia a lui anche per ciò che non capisco, anche per ciò che ai miei occhi sembra ingiusto, malvagio, sbagliato, perché se è per sua volontà, sbagliato non è».Colei che era ormai diventata Meredith, se ne stava seduta su di una scomoda panca insieme ad altri fedeli. Dal pulpito un giovane prete officiava la messa. La sua voce, che echeggiava in quel luogo sacro, infondeva serenità nell’animo dei presenti che su invito del parroco rendevano grazia a Dio. L’odore d’incenso pervadeva, fino alla nausea, come a voler coprire il puzzo del peccato, quel luogo gremito di “timorati di Dio” nell’inutile ricerca della salvezza della propria anima. Un’anima che infondo, per tutti loro, è marcescente ed agonizzante da tempo immemore. Eppure sono lì, sono tutti quanti lì, religiosamente, diligentemente, in silenzio, pronti a parlare solo quando il prete ordina loro di farlo, convinti che basti poggiare le loro grasse e blasfeme chiappe su quelle misere panche in legno, per sentirsi apposto, in pace, con Dio e se stessi…con Dio e con il mondo intero. Ingurgitano famelicamente ed avidamente il corpo di Cristo attenti, che nessuno possa sottrarne ad essi anche solo un misero pezzo, e ne bevono, come vampiri, il suo sangue dal calice in oro e pietre preziose, dal santo Graal che di esso, del sacro sangue n’è colmo fino a traboccare, cosi come trabocca dalle loro fetide bocche a causa della loro avida e bramosa sete del prezioso nettare di cui sono ebri. Il parroco dall’alto dell’altare sacrificale sporco di sangue innocente e di lacrime d’infanti battezzati, guarda, con il suo occhio inquisitorio, ma con immensa soddisfazione, lo svolgersi ed il ripetersi all’infinito del rito liturgico della comunione. Ammira i fedeli accanirsi sul corpo del loro salvatore, divorarne le carni, smembrarlo, spolparlo, fino all’osso e lavarsi con il sangue i peccati; certi della salvezza. Quale infausta sorte per questo gregge di pecorelle smarrite il cui pastore ha le fattezze di un lupo e dinnanzi ad esso sono genuflesse in attesa di donarsi a Dio per intercessione del prete. Meredith era in fila, con gli altri fedeli che avevano partecipato alla messa, in attesa di ricevere l’ostia dopo aver confessato i suoi peccati, sebbene non fosse chiaro, quali peccati poteva aver mai commesso una ragazzina di tredici anni. Era lì di fronte al prete e lentamente aprì la bocca. «Il corpo di Cristo» disse il giovane sacerdote e Meredith ebbe la sua dose settimanale di salvezza. Satolla della grazia di Dio, Meredith fece ritorno alla sua umile dimora insieme alla madre ed al padre che erano con lei a partecipare alla messa domenicale. Entrò nella sua stanza e segnò con un’altra ics il calendario posto sul comodino. Di quelle crocette, fatte con la penna, ve ne erano ormai ben quattordici.

Secondo estratto

Fu ad Angela che Elisabetta, tempo addietro confessò la sua voglia di farla finita, di non proseguire più con quello strazio che alcuni chiamano vita. Una volontà che sarebbe restata celata nel silenzio, forse fino al giorno in cui avrebbe compiuto l’atto estremo a cui pensava da tempo. Eli confessò tutto ad Angela, dopo che quest’ultima notò sulla parte superiore del polso, appena scoperto da una lunga manica, un taglio abbastanza profondo. Quando Angela chiese a sua cugina come si fosse ferita lei nervosamente tirò più giù la manica coprendo il taglio, dicendo che si trattava di un semplice graffio. Angela, insistendo, le tirò su la manica e vide il braccio pieno di tagli, una scena impressionante che la lasciò sbigottita, incredula. Elisabetta era un’autolesionista e le braccia non erano l’unica parte del corpo che martoriava. Tanti tagli di lunghezza e profondità variabile, come se volesse evidenziare le ferite dell’anima, quell’anima lacerata da cui forse neanche sapeva cosa e di cui ignori persino l’esistenza finche non la senti gridare e fino a quando non la vedi sanguinare. Era un dolore continuo a cui si accompagnava il rito dell’automutilazione. Ti ritrovi nel buio di una stanza, senti che c’è qualcosa che non va, come se una morsa ti stritolasse il cuore, che ti batte forte come a voler schizzare via dal petto, il respiro si fa affannoso e ti sembra di morire mentre la vista si annebbia e ti chiedi cosa diavolo stia succedendo. Afferri i capelli tra le mani ed inizi a tirare con forza, una ciocca viene via, avverti un dolore appena percettibile, ma abbastanza da accorgerti che da un minimo sollievo; allora ti guardi intorno, il tuo sguardo si poggia sulla scrivania dove c’è il tagliacarte, lo guardi e poi decisa lo afferri, poggi la fredda lama sul braccio, esiti ancora un attimo e poi determinata, fai un taglio, il braccio sanguina, ma è in quel momento che provi sollievo, e come se il sangue, fuoriuscendo portasse via con se dall’anima quel dolore che t’impedisce di chiudere occhio; allora fai un altro taglio e senti che va ancora meglio e senza neanche accorgertene, il pavimento della tua stanza si riempie di fazzolettini insanguinati. Il braccio, poi, non ti basta più, così una volta ti ferisci la gamba, un altro giorno un taglio sul petto e così via fino ad avere tagli su tutto il corpo. È come scrivere una storia usando il corpo come un foglio di carta, un diario per custodire i tuoi segreti, dove i tagli sono frasi che raccontano di te, della tua vita, un’autobiografia del tuo dolore, del tuo disagio…poi in te sopraggiunge la paura. Hai paura…paura che qualcuno possa giudicarti pazza, paura che nessuno possa capirti…forse tu per prima non capisci, ma il dolore che senti è reale come le ferite da cui sgorga il tuo sangue, allora copri i tuoi tagli con gli abiti e fai finta di nulla, come se non avessi nessun problema. Menti con te stessa e menti con gli altri mentre le ferite cicatrizzate lasciano spazio a nuovi tagli.

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