La donna è un’isola. L’Islanda.

Creato il 27 ottobre 2013 da Frailibri

Audur Ava Olafsdóttir, La donna è un’isola, Euinaudi *Supercoralli* (2013), 272 pagine, 18 euro

Se il libro è ostico come il nome dell’autrice, ho pensato, e brullo come alcuni paesaggi dell’Islanda che lei descrive, allora non ci siamo! Menomale che è breve, ho aggiunto. Me lo ha consigliato una persona di cui ho grandissima stima e quindi l’ho aperto e ho iniziato a leggerlo senza pormi altre domande.
Dopo le prime tre righe scritte in corsivo, quell’autrice dal nome impronunciabile mi aveva già conquistato e avevo capito che avrebbe parlato, da quel momento in poi, a me; sì, proprio a me, in un modo semplice, intimo, dolce e duro allo stesso tempo.
E mi avrebbe raccontato la storia di una donna particolare, una di quelle che ha un amante (anche più di uno), dimentica di fare il bucato, non indossa guepiere e reggicalze per sentirsi femmina e dimentica di cucinare un pasto caldo al marito, presa com’è dalla sua vita fuori casa. Una donna, praticamente un uomo.
Lei potrebbe essere, soprattutto nella prima parte del romanzo, lo specchio ideale in cui gli uomini si possano riflettere e in cui le donne possano osservarsi da un’angolazione diversa, condividendone o meno il punto di vista, ma comunque guardando divertite e incuriosite.
Lei è una creativa, una che la vita la prende di petto, ascoltando il suo cuore e facendo quello che le piace. Libera, senza vincoli morali o materiali e con una storia curiosa e a tratti paradossale. Dentro di lei ha il sole che quando splende fa rumore, come può essere in una terra di base fredda e buia per gran parte dell’anno e una malinconia di fondo che la fa vivere sempre fra il presente e il passato, fra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere.

Disponibile e generosa, accetta di rinunciare alla libertà riconquistata dopo la separazione (lato positivo per lei in una situazione dolorosa) e occuparsi del figlio sordomuto e “difficile” di una sua carissima amica; lo porta con sé in giro per l’Islanda e impara a conoscerlo e gestire il suo problema – che è anche emotivo.
A una prima parte della storia, quindi, molto leggera, che lei racconta con un tono divertito e sarcastico, si avvicenda un periodo più intenso e complicato, in cui accadono cose che a volte non vorremmo vedere, che ci troviamo costretti a subire, così come si trova sicuramente costretta lei, che ha preso di petto un’altra situazione difficile senza pensare alle conseguenze.
E anche qui lei si rifugia nel passato (in questo continuo scambio, anche grafico, tra presente e passato – rappresentato da periodi in corsivo) e cerca di trarre, più che insegnamenti, come ci si aspetterebbe, consolazione.

L’istinto che si ha leggendo fino in fondo è di abbracciare la protagonista, di confortarla, di farla sentire meno sola, chiusa in quella macchina con un bambino che parla a modo suo e uomini che si avvicendano nella sua vita senza mai lasciare un segno importante.
L’unico uomo che la cambia, le imprime una traccia profonda che sicuramente la farà essere diversa una volta per tutte, la farà “crescere” anche dopo la parola “fine” è quel bambino che le è in un certo senso “capitato”, come potrebbe “capitare” un figlio non voluto, di cui inevitabilmente alla fine ci si innamora.

La sensazione che rimane, dopo aver letto anche le ricette – lievi e originalissime – con cui la scrittrice chiude, è di quel torpore che prende quando ci si addormenta in macchina durante un lungo viaggio, come quello che sta facendo lei. Sembra di aver sognato una ragazza che se ne va in giro con un’oca morta (non è l’unica immagine forte del romanzo, ma è una di quelle che rimangono impresse) nel bagagliaio e un bimbo sordomuto accanto. E come nei sogni, della narrazione ti resta un susseguirsi di flash dolce-amari, di ricordi, di attimi che non sono i tuoi, ma finiscono per diventarlo, tanto è il calore con cui ti vengono raccontati.

Qui la scheda e un estratto da leggere.



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