Se penso all’antimafia, cuore e mente vanno ai pionieri che sapevano solo di rimetterci le penne, che si battevano per la gente comune, che avevano il nemico dietro l’angolo, a portata di fucile, di coltelli, di pistole, di bombe. Sindacalisti e uomini di Stato, come La Torre, Falcone e Borsellino, che ci rimettevano sempre di tasca propria, pelle compresa. Che tiravano dritto armati solo dei loro ideali. Come fu Calogero Cangelosi, sindacalista di Camporeale, ammazzato il 1° aprile 1948 da Vanni Sacco che non gradiva che nel suo paese qualcuno se la pigliasse contro i latifondisti e si battesse per portare un paese sperduto ai confini del mondo allo stesso livello dei paesi civili dell’Italia. Applicando le leggi di riforma agraria, lottando perché i contadini poveri avessero riconosciuto il diritto a un’equa ripartizione dei prodotti agricoli, o perché l’intera comunità di quel paese dimenticato da Dio fosse finalmente condotta sotto le regole della legge dello Stato e non della mafia.
I killer di Sacco lo aspettarono per il suo rientro e, quando lo videro, gli scaricarono addosso le loro armi.
Si chiudeva, così, con l’uccisione di questi tre sindacalisti socialisti, la reazione armata contro le punte più in vista del movimento contadino nella Sicilia occidentale. L’ala che non aveva aderito alla scissione, avvenuta nel gennaio dell’anno precedente, di Palazzo Barberini, ma che era stata fedele al Blocco del Popolo che, in Sicilia aveva vinto le elezioni regionali del 20 aprile 1947.
E come non ricordare, assieme a Calogero, sua moglie Francesca Serafino? Fino ad alcuni anni fa mi telefonava di tanto in tanto. Il suo grande desiderio era di tornare in Sicilia e di essere seppellita accanto alla tomba del suo Calogero. Lei, donna indifesa, 94 anni, dopo oltre sessant’anni da quando era stata costretta ad abbandonare la Sicilia, aveva solo questo desiderio. Era stata costretta a emigrare a Grosseto con i suoi quattro figli ancora piccoli. Ma nessuno era riuscito a togliere dalla sua testa le scene di morte della sua Camporeale. Con i suoi vestiti a lutto le conservava ancora come cimeli di una lacerazione sempre viva, senza rimedio come un male incurabile. La cravatta di suo marito crivellata di colpi di arma da fuoco. La camicia sporca di sangue. Il nero del lutto che da allora l’aveva uccisa, dentro e fuori, assieme al suo Calogero. Un lutto reso ancora più pesante dall’ignoramento costante e maligno dello Stato che ancora non ha profferito una sola parola su un processo mai istruito, su un atto dovuto da sempre rifiutato. Imperdonabili gli assassini, imperdonabile questo Stato.