La dove ci si trova

Creato il 27 aprile 2014 da Eugenio Scarabelli

Nel “Cammino dell’uomo” di Martin Buber troviamo il racconto da cui questo articolo prende il titolo: La dove ci si trova. Forse ho già citato questo brano; mi capita di farlo spesso. In questo caso chiedo venia ma, lo trovo così utile che non posso non tornare a rifletterci.

Ai giovani che venivano da lui per la prima volta, -narra Buber nella storia - Rabbi Bunam era solito raccontare la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripeté per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Eisik e l’altra metà Jekel!”. E rise nuovamente. Eisik lo salutò, tornò a casa sua e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata “Scuola di Reb Eisik, figlio di Reb Jekel”.
“Ricordati bene di questa storia – aggiungeva allora Rabbi Bunam – e cogli il messaggio che ti rivolge: c’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare”.

In questa domenica di una primavera che stenta a venire, dopo il lungo ponte Pasquale che ha visto un po’ tutti modificare i propri ritmi per tornare a tempi più blandi e attenzioni più famigliari o introspettive, non posso non tornare a riflettere sul messaggio di questa storia.

Buber mi richiama al valore della quotidianità e mi aiuta a lasciar andare il delicato senso di nostalgia che mi accompagna ora. “La dove ci si trova” è un richiamo ad amare e apprezzare la normalità del qui ed ora quanto del dove si è già, in ogni momento nella propria vita. Trovo che sia un grande messaggio per ripartire dopo la Pasqua, anche se non si è cristiani.

La stufa sotto la quale andare a cercare è la nostra stessa vita; quella specifica di ognuno di noi. Ed è in questa che l’Autore ci invita a ritrovare il senso, richiamandoci a contrastare l’istinto di fuga che tanto spesso avremo provato pensando alla nostra quotidianità e che ancor più spesso avremo agito con comportamenti caotici e illusori; che solo momentaneamente però, ci hanno dato l’impressione di essere “liberi” per poi farci sentire ancor più brutalmente immersi nella realtà da cui volevamo fuggire.

Il “se avessi più tempo” o il “se potessi farei…” che tante volte avremo pronunciato con rammarico, guardando i giorni sfuggirci tra le dita, per Buber sembrano essere una semplice idiozia. Una sorta di nevrosi del quotidiano mai appagato, che ci siamo costruiti subito dopo aver attrezzato la nostra stessa realtà. Un paradosso insomma, non so se legato all’occidente o al benessere in sé, secondo il quale: prima creiamo il nostro mondo e poi ne desideriamo un altro.

Nel far questo tuttavia, pare dirci Buber, dimentichiamo il valore di quel che c’è. Del luogo in cui siamo e delle cose di cui questo è composto. Tralasciamo di dare valore a queste cose, di amarle davvero e del tutto, fino al loro livello più profondo, ed evitiamo così di dissotterrare il tesoro che sta nascosto sotto le nostre stufe.

Nelle relazioni ricorrenti i di ogni nostra giornata, nelle occupazioni che si ripetono in modo oramai del tutto automatizzato, sta invece il “tesoro”. Il valore della nostra vita sta proprio lì e pertanto è lì che dobbiamo saperlo rintracciare. Siamo stanchi di quella certa relazione? Non sopportiamo più di dover fare una determinata cosa? Proviamo a chiederci cos’è che possiamo apprendere proprio da quello! Cos’è che ci può dare in particolare, proprio quella situazione oramai tanto scontata se non odiata.

Perché è proprio la tendenza a considerare triste ciò che invece è solo ricorrente, a farci perdere entusiasmo ed a stampare sui nostri visi espressioni di noia. Come se già sapessimo tutto, avessimo già visto tutto e conoscessimo già perfettamente l’esito di ogni cosa!

C’è poi un altro richiamo importante nel breve racconto di Buber, là dove il Capitano delle guardie deride Rabbi Bunam per aver riposto la sua fiducia in un sogno. Qui, credo, l’Autore vuole suonare la sveglia per risvegliare la nostra sensibilità al canale dell’Intuizione. Questa infatti, giunge spesso alla nostra mente come forma di conoscenza non scientifica e non provata, ma non perciò meno utile e valida per la nostra vita se solo la sappiamo ascoltare.

Attraverso il Rabbino che si spinge a piedi sino a Cracovia, Buber ci invita a riscoprire la curiosità e l’apertura all’imprevisto nella nostra vita. Ci richiama a riaprire il registro del possibile che solo, può evitare l’inaridirsi del quotidiano. Soltanto se lasciamo aperta la porta all’idea che anche oggi, proprio qui nello svolgimento del mio semplice e consueto mondo, qualche segnale potrebbe arrivarmi dall’Universo Creato che instancabile mi ruota attorno, allora possiamo permettere alla realtà di manifestarsi differente.

Il tesoro infatti, nella storia di Buber è lì: sotto la stufa. Proprio “La dove ci si trova” e non un passo oltre. E’ il Rabbino ad aver bisogno di compiere la strada sino alla Capitale per capirlo e poterlo poi trovare. Ma noi invece, di quanta strada abbiamo ancora bisogno per amare ciò che siamo, proprio qui dove lo siamo da sempre?



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