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"la' dove si sente il vento": i vulcani, le eolie, la sicilia

Creato il 07 febbraio 2014 da Antonella Di Pietro @Antonella_Di_Pi

"Un porto, al riparo dei venti è placido è grande;ma sopra con spaventosi tremiti l'Etna rimbomba,e a tratti vomita, nera, all'aria una nuvolavortici densi e accese faville fumanti,e alza globi di fiamme e le stelle lambisce..."Virgilio, Eneide, libro III

È un problema filosofico quello dell'articolazione del rapporto tra mythos e logos, tra mito e dialettica, tra narrazione e conoscenza. Nel nostro caso si pone anche l'articolarsi di un passato, che sostanzia un sapere e che poi si salda in un presente - conoscere=esporre=narrare - , che presentirà, profetizzerà un futuro. Così parlare, narrare di vulcani significa compiere questi passaggi costitutivi.n gesto della costruzione, che riverbera dall'immaginazione poetica, si dissolve in favola e coglierà significato e senso, ritroverà tracce idealizzate, riproporrà un possibile superamento di alternativa o di contrapposizione tra percezione, immaginazione, concetto. Sull'Etna o alle Eolie le stelle segnano un misterioso legame cosmico tra la luce e il fuoco a chilometri di profondità. Un catasto magico, direbbe Maria Corti.
Prendiamo da un versificateur domenicale:
"Pensieri e ancora pensieri
Le mie montagne
Castagni faggi abeti sentieri odore di muschio ginestre fulgenti
Così scorre la melodia dell’effimero.
E la tua Etna
si tormenta
e furiosamente esplode
ma le braccia, nere,
ricordi?
ti avviluppano nello struggimento di un bianco assoluto.
A Stromboli invece,
ancora il ricordo brucia…
quando la sera si srotola sugli scogli
fino a diventare buio
è il vulcano che accende le stelle.
Poi la sera si annera cantando blues
tra sonorità barocche…
non so dove vanno a morire i tramonti".
Lo spettacolo dell’ombra dell’Etna si allunga e si ritrae fino a coprire o a scoprire mezza Sicilia, dice De Tocqueville. E’ il sorgere del sole che  è irripetibile: ”com’è dato vederne una sola volta nella vita”. La creazione del mondo, questo incanto metafisico dell’alba? Una bellezza severa e terribile, un colore rossastro e violetto, diffuso sui flutti, che insanguina la Calabria, mentre l’elevazione dell’Etna s’inarca per adattarsi alla curva del cielo (B.Berenson). De Maupassant, invece, vedrà le coste della Calabria proiettare “l’ombra lontano sul mare, fino ai piedi dell’Etna, il cui profilo scuro copre l’intera Sicilia del suo immenso triangolo, che svanisce man mano che l’astro si leva.”
Poi appena visibile Malta (sic!). Schinkel lo supera perché riesce a vedere addirittura tutta la Sicilia, la Calabria le Eolie e addirittura l’Africa. Così i tramonti: “uno di questi basta per tutta la vita”, scriveva nel 1848 Wisniewski. E avrebbe fatto felice l’oscuro collezionista di tramonti, scoperto sul Baltico da Baricco, che conservava, nei barattoli di una fantastica collezione, tramonti, ancora tramonti, altri tramonti. Chi, nel racconto del lituano Kondrotas avrà la ventura di venire in possesso della collezione, passerà, nel chiuso di una stanza,  dalla curiosità incredula alla visione trasfigurata della magia delle luci che, di sera, scoppiano nel cielo e a poco a poco si scolorano e diventano sera, “nell’attesa che …fa palpitar le prime stelle”. Così la collezione di tramonti susciterà nel nostro eroe la voglia di collezionare albe ed aurore.
Nell’isola, scrive Dumas, il vento suona, si insinua, produce vibrazioni simili ai fremiti di arpe eoliche o a un rumore di tamburi e cembali. Sulla montagne, collegate nel profondo e che sono anche bocche di accesso all’inferno (trionfa nella scelta topografica dell’inferno siciliano, sostanziata da millenarie credenze, un aldilà inferico proprio nell’ambito vulcanologico), si racconteranno puntuali nessi di causalità tra vulcanesimo e rivolgimenti tellurici. La saggezza antica, con procedure di inconsapevole mitopoiesi,  riproporrà gli  statuti dell’immaginario. Una ricchezza unica: in Africa si dice che quando muore un vecchio è come se si incendiasse una biblioteca.
Ma nella quiete il primordiale terrore, nel talento combinatorio tra morte e vita, si rivestirà con “spropositate “ ginestre e fioriture di lupino, di borraccina azzurra, di asfodelo, di caprifoglio, di cappero, di malva. di pervinca, di corbezzolo, di fico d’india e ancora altre, con un esplosione di mille colori, quasi spruzzati, in un continuo travestimento, nel verde, tra il nero e, in alto sull’Etna, il bianco delle nevi. Un vero e proprio bosco di ginestre, come “una sciarpa gialla, avvolta attorno al cono appuntito” (G.de Maupassant).
La storia ci scivolerebbe tra le mani se dovessimo pensare che è un susseguirsi per caso, quasi senza trama od intreccio. Un degrado confusionale? L’immaginario degli uomini acquisisce, in un gioco di specchi e nel procedere delle stagioni, il senso di logiche antiche, di memorie che hanno prodotto il mito. Nell’ossimoro dell’orrido affascinante: il mostro, appunto, meraviglioso. Dice de Roberto…”oltre il freddo c’era un altro spavento, quando la montagna s’apriva, vomitando fuoco e cenere ardente: i terremoti sconquassavano la fabbrica, la lava distruggeva gli alberi e disseccava la cisterne, la cenere infuocata bruciava ogni verdura…”.
Enorme, infinito, grande, vasto, indescrivibile, terribile, spaventoso: così i diari di Schinkel. C’è tutta l’estetica del sublime, il demonismo dell’estetica del sublime: Il vulcano che sovrasta anche quando diventa tema familiare ineludibile. Lo Stromboli è iddu. Così il vulcano che mugugna e che erutta è iddu che parra ( G.Farinetti). Da sempre anche l’Etna è opera di fantasia creativa che ha sempre sollecitato ricerche volte ad afferrarne il significato. Da Agatocle, 290 a.c,  ad Aristotele, ad Augusto, a Diodoro e Strabone sotto Tiberio, a Giulio Ossequiente e poi Plinio e Solino e Stefano, da Pomponio Mela ad Apollonio Rodio, a Cluverio.
De Maupassant, tranquillizzato dal fatto che in Sicilia non ci sono più i briganti, dopo aver assaporato lo Stretto, come la foce di un fiume che odora come la camera di una fanciulla, gode, sull’Etna, alla vista, ai suoi piedi, di un bosco di aranci e ulivi. Poi scorgendo un fiotto nero, che ha resistito al tempo, vede nella forma dei vari rigonfiamenti, contorni straordinari, sagome di animali aggrovigliati, membra contorte. La natura dai colori vivaci impressiona anche Goethe che scrive: La natura ama i colori vivaci  “e si allieta sul fondo nero-blu-grigio della lava; un muschio d’un giallo intenso e un bel sedum rosso vi crescon sopra e altri fiori violetti”.
E poi la vetta nevata, che fumava appena; “la rossa montagna è tutta a rossi rottami vulcanici”. Un’antitesi vivente e i temi che ne scaturiscono sono tutti di tipo dualistico (M.Tuzet): morte e fecondità, neve e fuoco… E questo l’aspetto che soprattutto colpisce Brydone: paradiso all’esterno ed inferno all’interno. Il paradiso esterno, quello della sciara che arriva al mare e lo colora, (il mare era tutto color della sciara, scrive Verga preannunziando la tragedia della barca dei lupini) all’origine di eventi disastrosi, orrido appunto, ma, in odioamore, comunque paradiso, ovvero in quella che l’Indelicato chiama la civiltà della lava.
Il paesaggio antropico dell’Etna, tra il Simeto, l’Alcantara e il mare, può essere letto, come fa il Formica, “specificando la fascia agrumicola che cinge il vulcano dal livello del mare a 500 metri, la zona viticola, dai 500  fino ai 1200 metri, quindi il piano del frutteto più consiste fino ai 1600 metri, infine afferma il suo dominio il bosco, prevalentemente di castagni, che, oltre i 2400 m., lasciano il posto al pascolo. Fasce legate, in modo sostanzialmente unitario, dal paesaggio lavico che connota strade, muretti di sostegno e di recinzione e soprattutto abitazioni e strutture urbane nei centri minori e nelle città: il nord-est del Val di Noto costruito tende al nero totale. Un fascino severo che da corpo ad una architettura contadina, che si aggiunge al nero delle terre e allo sfondo di neve e si mescolerà ad una fantasmagoria di colori.
Nel dopo terremoto del 1693, il Duca di Camastra e il Vaccarini, nell’opera di ricostruzione troveranno modo di conciliare, tra l’altro,  le controversie tra clero e nobiltà, dando alla chiesa la possibilità di costruire e di organizzare le piazze e ai nobili l’edificazione negli assi portanti. La pianicazione del dopo terremoto è certamente più complessa ma abbiamo voluto ricordare uno dei suoi capisaldi: Catania (anche l’elefante è simbolo di questa civiltà della lava), i centri dell’apoteosi barocca, sono una enfatizzazione della pietra lavica. Ma anche nelle strutture elementari, pavimentazioni, cordoli dei marciapiedi, scalinate, portali, cantonali, finestre, persino anelli per legare le cavalcature etc.  poi sculture e altri innumerevoli episodi di design funzionale contadino.
ltrettanto unitario, pur in diversa specificità, il paesaggio delle Eolie, eccezionale esempio dell'attività di costruzione e distruzione di isole operata dal vulcanesimo, che testimoniano un fenomeno vulcanico tuttora in corso, studiato già a partire dal XVIII secolo con la descrizione di due tipi di eruzione (vulcaniana e stromboliana). Un vulcanesimo che determina tutta la conformazione costiera e finisce con il disegnare ed arredare persino il mare. L’esclusivo impiego del materiale vulcanico, come scriveva M.Teresa Di Maggio, ha contribuito ad uniformare l’aspetto delle dimore e, più in generale, del pur frammentato paesaggio antropico  delle strutture agrarie, con abitazioni rurali, terrazzamenti, talvolta, come a Capo Graziano, audaci e prodigiosi, muri di recinzione e di contenimento, tra il colore, diffuso a chiazze, nella vegetazione spontanea della macchia mediterranea. Blocchi di lava, lave porose, tufo, pomice: i materiali ricorrenti. In un convivere fuori del tempo, nelle stagioni del mito.
E dalle caverne, dagli anfratti, dalle porte di pietra si può entrare nella metafora dell’inferno, metafora? Realtà, signori, realtà, griderebbe il padre dei sei personaggi. L’inferno che sovrasta con immagini complesse di maghe, di streghe eoliane, e di un soprannaturale che stanno lì dietro l’angolo. Il demonio è nella cavità imbutiforme del cratere: “in questo cratere infatti per anni si un vecchio vestito con un cappotto camminare speditamente, appoggiato a un bastone” (M.M. Maffei, 2000). Tutti sapevano che era il demonio che emergeva dalle viscere della terra perché tutti sapevano che il cratere era la porta dell’inferno. La nonna, quando era piccola, dopo l’avemaria, vedeva il vecchietto e si chiudeva in casa…Tutte le sere. Perché c’era il diavolo, si diceva (M.M.Maffei, id.). In realtà “ il diavolo nelle Eolie è stato sempre per così dire di casa”. Del resto discende da lontano un’ampia, magica e concorde letteratura che “indica la Sicilia come ricettacolo geografico dell’aldilà inferico sulla terra” (M. M. Maffei, 2002). Un isola a più varchi verso l’inferno: L’Etna e le Eolie.
Ed è l’ambito vulcanologico, “ sostenuto da una visione torva” di fenomeni naturali come eruzioni e terremoti, che manifesta l’antica connessione “con volontà ultraterrene”. Così Teodorico  fu gettato nell’abisso dell’Inferno attraverso il cratere di Vulcano, e Jacques Le Goff ci racconta che San Willibaldo viaggiò alla volta di Lipari per vedere l’inferno, quello di Teodorico, appunto. Quando però, spinto dalla curiosità volle salire in cima alla montagna non riuscì ad andare più avanti perché glielo impedirono “scintille provenienti dal fondo del nero tartaro che salivano fino al bordo e si stendevano ammassandosi (…), ma vide levarsi, emanata dal pozzo, una fiamma nera, terribile e orrenda, accompagnata da un rombo di tuono (…). Quella lava, della quale hanno parlato gli scrittori, egli la vide salire dall’inferno ed essere proiettata insieme a delle fiamme fin nel mare, e là nuovamente rigettata indietro” (Maffei, 2002).
Se c’e l’inferno, c’è il demonio,  non una brutta bestia con le corna, la coda e i piedi caprini, ma un vecchio intabarrato, come si è detto. Gli antropologi, poi, decodificando il diavolo delle plebi, parleranno di proiezioni di ansie e di angosce, di mali concreti subiti da classi subalterne. Ed Empedocle, che è in esilio sull’Etna, cercherà gli inferi quando si getterà nel cratere (F.Hölderlin)? “La  colata divenne un fiume rosso”, racconta Maria Corti, “rosso accesso, forsennato, era la forza viva del dio fuoco che fiammeggiava in lei e suonava una musica nuova, quella che proviene dalla combustione del cosmo…e lievitava, si incurvava, scoppiava come accade ai corpi celesti negli infiniti spazi stellari. Ed Empedocle pensò: "E’ questo il momento", Si buttò nel rosso abisso. E cadde ritto in piedi nella lava come fossa e liberazione. “Un sandalo di bronzo torna indietro, sbattuto in su dall’esplosione e giace sul bordo nero”.
E dopo le officine degli dei nel ventre della montagna, dopo i tormenti e le astuzie di Ulisse e la rabbia cieca di Polifemo, dopo Empedocle, - quando a Vulcano s’inabisserà Teodorico - qui sarà Re Artù, condotto dalla fata Morgana, che poi veleggerà verso lo stretto. I miti dell’aldilà in un regno fatato di morti. Il destino va a ficcarsi nelle fessure del mondo. Fessure o spaventosi crateri o orride fauci. E da quelle, ad esempio, l’8 marzo del 1669, primo venerdì di quaresima, “non da una, ma da cinque horride fauci venne a sboccare con tale empito e veemenza che in un giorno corse meglio di sette miglia, dilatandosi mai sempre, qual Briareo d’inferno in nuove e mille braccia…” Ma quante altre volte?
Maria Corti riprende il tema dell’inferno caro agli antropologi. C’è il diavolo ma c’è anche un turbinio di preghiere, di offerte votive, di processioni: il braccio di S.Agata, il venerando velo, tutto per implorare, espiare, promettere catarsi collettive ed individuali, e uscire così dall’Iliade funesta. Il vulcano perciò, poi i terremoti, come strumenti della collera divina. Il bellum dei adversus impios per terraemotus? Corrado Dollo ci ricorda che già S. Tommaso aveva chiarito che la volontà di Dio non agisce sui fatti naturali, ma in ogni caso quelle pratiche si ripeteranno fino ai nostri giorni, per esorcizzare il pericolo incombente e il timor panico. E questo, nonostante la scienza già allora si fosse cominciata a interrogare sui fenomeni.
Tutte le documentazioni del tempo ci parlano di disordine, di disperazione e poi di benedizioni generali, di pubbliche confessioni, di pubbliche penitenze e di tutte le forme liturgiche possibili. Talvolta in contrasto con la stessa chiesa e quindi in autogestione, alla ricerca di un rapporto diretto con Dio o con santi più popolari, proprio perché la mediazione clericale finiva con l’apparire come non più necessaria. Occorre appena ricordare che superata la disperazione per il trauma e anche in relazione alla sua gravità, c’era un prepotente frenetico fiorire della vita, un allegria irrefrenabile ed insolita…e l’attività sessuale non poteva non essere protagonista di questo risveglio (A.Placanica).
Così una prodigiosa corsa alla nuzialità. Libertinaggio e trasgressione, dicono i moralisti d’occasione, altri, con toni politically correct, parleranno sì di pulsioni istintive,  ma anche di un generale incanalarsi nell’ethos. Campioni attendibili, dopo il terremoto del 1783, diranno dell’innalzarsi alquanto sostenuto della curva dei matrimoni e delle nascite, ma, dice Placanica, si registra anche un diminuire di figli naturali, e un riprendersi di pratiche di religiosità vissuta. Per il caos e i possibili disordini ci sono invece i pensieri, profeticamente attuali, dell’abate Galiani che, affinché i ministri rivolgano mire “a far risorgere e mutar d’aspetto un paese intiero sicché divenga tutt’altro in avvenire”, suggeriscono “un piano generale, in cui contengansi tutte le migliorazioni da farsi” e sperano che “ alla fine una gran parte del piano sarà eseguita”.
Ma torniamo al discorso del rapporto tra vulcanesimo e terremoti. Qui è Dollo che riprende la lettura e la esegesi aristotelica operata da Tommaso d’Aquino; ed anche delle distinzioni di Alberto Magno: terremoti agitanti, sovvertenti, impellenti, scindenti, perforanti, tremuli, rovinosi trasportanti e via dicendo. Altri avevano ridotto a quattro queste distinzioni: secondo tremore, concussione, arietatio, inclinazione. Ma senza continuare in queste sottili dispute, diciamo che la tesi dell’aquinate,  è che ci si trova in presenza di fuochi sotterranei, di zolfo e bitume che si infiammano, poi carbone, poi salnitro. Un riscaldamento della litosfera per il sole e d’inverno un spostarsi verso il basso del calore che prima era sopra…Il magma sotterraneo attraverso i vulcani si riversava all’esterno e quindi ne erano conseguenza gli assetti tettonici. Così le caverne sotterranee di fuoco, i soffi caldi del neuma in un recipiente ignoto da esplorare (Dollo).
Quindi, una combustione centralizzata, rispetto alla quale i vulcani rappresentano i punti di rottura dei sistemi. Augusto Placanica ci introduce nel dibattito scientifico del dopo 1783. Da un lato, la corrente che parla di emanazioni elettriche: le onde sismiche partono da un ipocentro vulcanico, poi vengono arrestate da sistemi di roccia compatta e  avviene lo scontro di onde d’urto in arrivo e di onde riflesse in fase di ritorno: gli esiti sono di grande catastroficità. Dall’altra, l’ipotesi fuochista: con riferimenti  alle masse esplosive sotterranee, alle materie sulfuree, nitriche e ferrose del sottosuolo, all’aria rinchiusa nei cavi della terra, oppure alle esplosioni locali dovute alla sovrabbondanza inesausta di minerali commisti ad acidi etc…Per lo più motivi endogeni in cui è protagonista il vulcano. Per esempio, “ quando lo Stromboli non riesce ad eruttare, la tensione si scarica sotto terra”.
Oppure, pensa il Dolomieu, si tratterebbe dell’assorbimento di acque meteoriche dentro il vulcano, con conseguente formazione di vapori a pressioni altissime con bolle di gas infiammabile che vengono prodotte durante la fermentazione interna che precede e accompagna le eruzioni. Il cercare di capire sarà una costante della sismologia e della vulcanologia; non si arriverà però ad un possibile quadro di previsioni o alla possibile predisposizione di una pur qualsiasi misura di contrasto ed è eloquente l’affermazione del Mercalli che la sismologia non sa dire quando ma sa dire dove avverranno terremoti rovinosi. Non tenteremo di arrivare alle cronache del nostro scontento e ci fermeremo a dopo il terremoto di Messina del 1908.
Nel numero del 1 febbraio del 1909 la  prestigiosa Revue des deux mondes, ospita un lungo articolo del naturalista e geologo, professore al politecnico  Stanislas Meunier. Anche lui cerca di capire, utilizzando la letteratura del tempo, il perché della sinistre serie de leurs calamites (de l’humanite) e de le disastre sans precedent, e  riflette sulle regioni sismiche: lo stretto di Messina, la baia di Napoli, la Grecia con Zante, la Spagna con Siviglia, il Portogallo con Lisbona, il Messico, l’america centrale, il Cile, il Perù; poi passa alla lista dei punti sismici: Etna, Vesuvio, Santorino per la Grecia, Dendur per l’India, Popocatepetel per il Messico etc.
La distribuzione dei sismi nello spazio è espressa dalla concentrazione in bande di territorio la cui larghezza varia da 5 a 15 gradi, cioè tra 500 e 1500 Km. e la distribuzione generale mostra significative analogie con la presenza dei vulcani. E’ una relazione importante, scrive Meunier, e il vulcano può considerarsi come un epifenomeno del terremoto. “Il raffreddamento, inevitabile e senza compensazioni, determina sulla crosta terrestre occasionalmente delle rotture della superficie che sono relativamente meno funeste di come potrebbero essere”. Il tutto cartografato in una geografia di aree e punti sismici.
Lo scrittore Luciano Zuccoli il 24 gennaio del 1909 esprime in bella e colorita evidenza le considerazioni del Mercalli: tutti gli apparecchi sismici del mondo avevano, un attimo prima, che quella incommensurabile catastrofe avvenisse (il terremoto di Messina), una tranquillità da apparecchi musulmani; al momento del disastro ballarono debitamente, con furore da negri, il loro scienziato cake walk , poi tornarono in pace nell’immobilità: questa è la sismologia. E allora paure, angosce: perché nei terremoti “improvvisamente perdiamo la nostra confidenza innata nella stabilità della terra, dice von Humboldt,…un solo istante basta per distruggere l’esperienza di tutta una vita”.
Per i vulcani è quasi sempre diverso: la montagna in fiamma incombe inarrestabile ma dà il tempo di allontanarsi, nella speranza che si fermi. La storia geologica delle Eolie o di altre isole ci parla di configurazioni insulari determinate solo da eruzioni e terremoti. Il caso più alla portata dei nostri sguardi è quello di Pollara, nell’isola di Salina: un mezzo cratere che si inabissa nel mare.
Leonardo Siascia in Delle cose di Sicilia, ci propone la relazione del geologo Carlo Gemmellaro sui fenomeni del nuovo vulcano, un’isoletta improvvisamente apparsa nel Mediterraneo l’8 luglio del 1831,  di fronte alla costa di Sciacca. L’isola diede luogo a conflitti di territorialità, finché nel giro di pochi mesi scomparve. Ne restò il nome, Isola Ferdinandea, per il fatto che la nascita di questo vulcano era contemporanea “ del primo arrivo in Sicilia del nostro augusto re Ferdinando II”.
Che la Sicilia si giace fra le gole dei vulcani, chiaro lo dimostrano le isole che le fan da corona per tramontana, occidente e libeccio. L’ardente Stromboli, Panaria, Saline, Lipari, Vulcano, Filicuri, Alicuri, Ustica, Levanzo, Favagnana, Marittimo e Pantelleria non sono che prodotti vulcanici, non sono che crateri trachitici. Poi si dilunga sul val di Mazara, sui vulcani estinti del val di Noto, sugli scogli dei Ciclopi e, infine, sul più antico: l’Etna.
Se Stromboli arde incessantemente, se l’Etna è in continua azione, se le scosse di tremuoto si fan sentire più di una volta in diverse parti di Sicilia, non resta più dubbio che il focolare comune di tanti vulcani, esiste acceso e perenne, e or da un punto or da un altro, per qualcheduno de’ suoi ordinari fenomeni la sua attività manifesta. E allora, in tale posizione della Sicilia non dobbiamo noi meravigliare se i soggiacenti focolari vulcanici si facciano strada anche nei luoghi, dove non si sono manifestati mai prima. E il geologo Gemmellaro aggiunge: “ …Per me sono così certo dell’esistenza di una corrente sottomarina di lava, che mi pare di vederla uscire dalla parte di tramontana, ai piedi del nuovo cratere…”
Così apparve Ferdinandea. Prima tremuoti fortissimi, poi rimescolamento delle acque del mare (attribuito a qualche passaggio di grossi pesci), poi ribollimento del mare, poi ancora piccoli pesci morti e grave odore di zolfo. Il 10 luglio il capitano Giovanni Corrao vide, a 20 miglia dal Capo S. Marco a Sciacca, a un tiro di schioppo, una massa d’acqua inalzarsi dalla superficie del mare frammischiata col fumo di circa 60 palmi di altezza, portando una circonferenza di quasi 200 passi.
Arriviamo al 18 luglio quando, dopo una serie di racconti di testimoni privilegiati, tutti dello stesso tenore, il capitano inglese Swinburne, dal suo bastimento, vide dapprima colonne di fumo nere che a poco a poco divenivano bianche e poi eruzioni ad intervalli regolari. Al far del giorno, quando dissipatasi il fumo, vide una piccola collinetta di colore scuro, alta pochi piedi sul mare, che tosto veniva coperta dalle nuove eruzioni.
Eruzioni continue quindi che si stratificano e costruiscono l’isola (Mazzarella S.). E “se altro utile recato non avesse alla scienza de’ vulcani l’osservazione di questo emerso a dal mare di Sciacca, basterebbe al certo l’aver con prove non dubbie data la spiegazione più soddisfacente de’ tormentati terreni, e della giacitura delle rocce de’vulcani già spenti”. Poi, fuori relazione Gemmellaro, la scomparsa, alla stessa maniera, presumibilmente. Ci costringe, questa scomparsa di Ferdinandea, a sgomitolare ricordi di gioventù e a tornare, con emozione, all’ apocalittica esplosione dell’isola misteriosa di Verne, diciamo un luogo del cuore o, meglio, di una geografia immaginaria:… dopo i vetri filiformi di lava fluida… un torrente di lava... che si abbatteva sull’opera dei coloni… durante la notte dall’8 al 9 un’enorme colonna di vapori, uscendo dal cratere, si elevò fra denotazioni spaventevoli a più di tremila piedi di altezza.
La parete della cripta Dakkar aveva evidentemente ceduto sotto la pressione dei gas, e il mare, precipitandosi per il camino  centrale dell’abisso ignivomo, evaporò immediatamente. Ma il cratere non potè dare uno sbocco sufficiente a quei vapori. Un’ esplosione, che si sarebbe udita a cento miglia di distanza, sconvolse gli strati dell’aria. Interi pezzi di montagna caddero nel Pacifico e in pochi istanti l’oceano ricoperse l’area dov’era stata l’isola di Lincoln. Cyrus Smith e i nostri eroi si attaccheranno come ostriche ad uno scoglio, “l’unico punto solido che i flutti del Pacifico non avessero inghiottito”. Grande protagonista di questo lungo viaggio rimane comunque una natura, incarnazione di un mito: un modo d’essere della Sicilia archetipo e ginnasio di un paesaggio di lunga durata, una metafora.
Un marinaio che approda alle isole Eolie, 
nel II sec. a.c., al termine del suo lungo viaggio, 
si rivolge agli dei inferi, riproponendo un eterno dualismo :
Conoscete i campi fioriti dei Cappadoci.
Là io fui generato da buoni genitori.
Da quando li lasciai venni all'occidente ed anche all'aurora.
Il mio nome era Glafiro (amabile?)  ed era paragonabile alla mia mente.
Vissi compiutamente il sessantesimo anno e conobbi
il bello della sorte e l'amaro della vita.                                    
                                                                                     
Un viaggio talvolta scomodo e rischioso, al punto che, alla fine del suo, Alessandro Dumas, tendendo la mano verso la montagna, giurerà “ che, a dispetto del Vesuvio, lo Stromboli era l’ultimo vulcano” col quale avrebbe fatto conoscenza. E perderà molto: rosso e giallo, tuoni, boati, lingua di fuoco e, nel cratere liquirizia congelata, come, con stile stringatissimo, dallo stupefatto diario di Hermann Melville. Noi non faremo come Dumas. Né ci esprimeremmo come Friederich Maximilian Hessmer, che, nell’estate del 1829, guardando l’Etna rosseggiare all’alba, in un momento che descrive come straordinario e indimenticabile, scrive: “…se adesso ritornassi a Napoli, il Vesuvio mi entusiasmerebbe molto meno: fra questi due vulcani c’è la stessa differenza che tra Omero e Virgilio”.  
Giuseppe Campione

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