Come c’ero finito? In realtà volevo vedere il mare in tempesta e sentirmi zuppo, farmi cadere quanta più pioggia possibile sugli occhi, tenendoli aperti, come i veri uomini. Poi una forte folata di vento ha fatto staccare la scialuppa dal fianco destro della barca, e non so come rotolando si è bloccata sopra la mia testa, diventando il mio tetto, il mio riparo. Stavo sopra una nave, coperto da una barca.
Accovacciato sulla prua dello scafo ribaltato, sentivo il vento che si insinuava tra le giunture, che mi fischiava nelle orecchie e mi sfiorava il viso. Il mare era come schiaffeggiato dalla nave che arrancava sulle onde, e l’andare altalenante non mi dispiaceva; l’ondeggiare invece mi faceva andare a destra e a sinistra, costringendomi a togliere le mani dagli occhi e a poggiarle nel metallo incrostato e bagnato dall’acqua mista a salsedine. Avevo paura!
L’andamento della nave diventava sempre più un ballo, le onde squarciate dal ferro pesante producevano piacevoli boati, ovazioni. Delle folle di gabbiani iniziavano così a battibeccare sopra la mia testa, un delirio di suoni che rintuonavano sotto il mio tetto, la mia conchiglia.
Ogni sera, d’inverno, intorno alle sei, quando anche l’ultimo rossore del cielo era sparito, io iniziavo a sperare nella pioggia.
Ogni sera, d’inverno, intorno alle sei, quando anche il rumore della televisione in cucina era annientato dal suono dell’acqua che cadeva sulla terra, io iniziavo a costruire la mia scialuppa ribaltata; una conchiglia di sedie e coperte in mezzo ad una stanza che mi permetteva almeno per qualche ora di in un altro mondo, nel mio.