Ma anche se così non fosse, tutta la vicenda pone dei problemi di fondo che non possono essere nascosti sotto il comodo tappeto dell’assedio mediatico perché questi sistemi non fanno altro che aprire i ponti levatoi ai media main stream e ai loro partiti di riferimento. Innanzitutto occorre chiedersi che senso abbia parlare di democrazia digitale, come fa il sotto guru Becchi che in vita sua non ha mai acceso un computer, che significato abbiano i riti sacrificali alla grande madre Rete, quando alla fine ha l’ultima parola è di una cerchia ristretta, non eletta da nessuno, ma scelta direttamente da Grillo e dai suoi autori. La senatrice Gambaro è stata eletta in Emilia con quasi 600 mila voti, mentre è stata espulsa probabilmente da meno di mille corregionali “certificati”. E’ chiaro come un mezzogiorno nel Kalahari che mentre con il termine rete si allude a una partecipazione diffusa e capillare, attingibile da ciascuno, nella realtà il termine indica una cerchia assai ristretta e personale che non ha alcun rapporto né dialettico, né quantitativo con l’elettorato. Anzi, ancor peggio, si propone come un nucleo di iscritti esattamente come in un partito tradizionale, salvo che per la mancanza di una minima dialettica politica per cui lo zoccolo duro può essere usato come carne da cannone per gli assalti alla baionetta.
Dunque una struttura esiste, anche se con con l’invocazione alla rete si può far finta che tutto sia informale secondo il dettato del non statuto. Esiste un capo (un vero leader avrebbe abbozzato), esistono dei “cittadini”sottoposti, esiste una “vecchia guardia”: più che un rifiuto della forma partito, ne sembra una inconfessata parodia autarchica.
Ora proprio questo è il secondo problema posto dall’espulsione della Gambaro e di cui la curva degli ultrà grillina non sembra accorgersi, quando nella foga urla che anche gli altri partiti espellono, castrano, isolano, censurano, nominano: non c’è dubbio su questo, ma chi ha votato per il movimento voleva per l’appunto cambiare non ritrovarsi dopo pochi mesi con un pugno di mosche in mano a misurare la democrazia del movimento non sui propri meriti, ma sulle malefatte altrui entrando nella nobile gara del chi è più sano ha la rogna. Ecco perché il caso Gambaro è un punto di non ritorno: il M5S, a forza di guardarsi dagli altri partiti e dalle loro possibili manovre, a forza di voler rimanere puro e incontaminato, invece che giocare in attacco, ha adottato il catenaccio e si è messo da solo nell’angolo. Riuscendo alla fine a parere anche peggio. E di certo il caso Gambaro non fermerà le emorragie, semmai le rinforzerà.
Ma non sono soltanto errori, c’è anche una sostanza dietro i passi falsi: succede quando ciò che non si vuole essere è la parte prevalente di ciò che si è.