Ma chi è Baganis? Sua moglie Anna gli rimprovera una «lontananza colpevole e crudele». «Qualche volta Baganis aveva provato a trovare una giustificazione per quel comportamento: in realtà gli era sempre più chiaro (…) che lui tentava semplicemente di difendere il proprio diritto ad essere la persona mediocre che in effetti era: un donnaiolo senza alcun gusto, un pessimo marito, un padre simpatico ma sostanzialmente assente.» [p. 40]
Le donne che Baganis circuisce e si porta a letto sono donne sopra gli -anta, fondamentalmente insoddisfatte della vita. Le usa e si lascia usare, per una scopata e via, al massimo qualche strascico. Il nostro antieroe diviene perciò una potenziale minaccia per i suoi colleghi di lavoro – è area manager in un’azienda dell’hinterland milanese - e il suo capo gli offre un pranzo con acclusa paternale per metterlo in guardia, per farlo rientrare nei ranghi. Baganis replica: «(…) Non ho mai rovinato nessuna famiglia, tranne forse la mia. Le coppie si sfasciano da sole, per poco amore, per poco rispetto. Per poco di tutto. Io sono uno scarabeo stercorario. Il mio lavoro è fare palle con la cacca degli altri.» [p. 82]
C’era stato un tempo in cui le donne per Baganis erano sinonimo di bellezza, ma in seguito quella spinta vitale si era trasformata in stanchezza, poi in noia fino a farlo sprofondare inesorabilmente in un male di vivere profondo e indefinito, un vuoto da colmare con l’ossessione compulsiva per un sesso seriale, senza implicazioni sentimentali.
In La felicità esiste il germe dell’infelicità è coltivato con una determinazione autolesionista dai suoi personaggi, in diverse varianti. Il colore che contraddistingue le loro vicende è il grigio. Grigio è Baganis, quarantenne senza qualità, sprezzante e indifferente al lavoro, agli affetti, grigio anche nell’aspetto (barba incolta, look trascurato, con una mano sprovvista di pollice, dettaglio quasi “demoniaco”). Plumbea è la città di Milano, teatro degli eventi. «Sul lato opposto, a sinistra, immersa nei vapori della zona industriale, c’era la SIB, con le sue finestre marroni, la grande antenna sopra il tetto, e la terrazzina per i fumatori all’ultimo piano: una gabbia circondata da erba artificiale.» [p. 34]
L’abilità di Zardi è quella di mantenere ancorato il lettore ad un intreccio sostanzialmente tetro e incolore, ad un tizio sgradevole e antipatico, dosando con mestiere i vari flash-back che aprono finestre sul suo vissuto, ampliandone l’indagine psicologica. Apprendiamo così che la sua già marcata attitudine all’infedeltà e al malessere esistenziale si acuisce in seguito alla morte del suo unico figlio, Leonardo, caduto accidentalmente dalle scale, e alla conseguente separazione dalla moglie Anna, devastata dal dolore, paralizzata in un fermo immagine all’epoca precedente l’incidente, intenta a recuperare gli effetti personali del figlio per custodirli nella sua cameretta tramutata in un tempio votivo alla memoria. In Baganis i sensi di colpa si moltiplicano: alla sua connaturata incapacità di essere fedele, alla sua rinuncia a comprendere la moglie e gettare un ponte sul baratro delle reciproche disperazioni si aggiunge, cocente, il rimpianto di non essere stato abbastanza vicino a Leonardo nel momento in cui aveva maggior bisogno di suo padre. «(…) la storia della sua vita era stata scritta da un cialtrone: Dio, o qualche altra creatura altrettanto primordiale e feroce. (…) Suo figlio era morto senza risvegliarsi, proprio mentre lui, dopo due giorni di paziente attesa, stava seguendo un’infermiera con la speranza di portarsela a letto.» [p. 41]
Ma allora, il titolo del romanzo è solo un’ultima beffa, un’affermazione provocatoria che, se fosse una domanda, avrebbe una negazione come risposta? Zardi passa la realtà al tritacarne; analizza, scompone, disgrega. Sa essere sottilmente ironico quanto crudele e spietato. Le dinamiche interpersonali, il loro equilibrio fittizio e convenzionale, la mancanza di valori e le ipocrisie, nel lavoro come nella vita privata; il consumismo e l’abitudine perniciosa, la mancanza di un pensiero strutturato, di una sensibilità affinata sono i temi che scorrono sotto la lente dello scrittore padovano. Ma così è la vita, e la vita è volubile. Quando meno te lo aspetti cambia le carte in tavola, ti presenta un’altra opportunità, che nel romanzo è rappresentata da Sveva, la dolce maestrina di Leonardo, una boccata d’ossigeno inaspettata nell’esistenza asfittica di Baganis. Sveva è bella quanto fragile e sfuggente; la seduzione che opera sul nostro si trasforma lentamente da ossessione a una forma d’amore.
Sveva ama i libri; per Marco acquista nientemeno che La versione di Barney di Richler. C’è tempo pure per una digressione sul senso della letteratura. Lei dice: «(…) credo che uno degli aspetti più interessanti del romanzo occidentale degli ultimi centocinquant’anni, da Flaubert in poi, è il fatto che spesso le storie parlano di un’occasione mancata.» [p. 125]
Sveva potrebbe rappresentare l’occasione, per Baganis, di essere migliore, di uscire dalla sua irrimediabile solitudine, di afferrare quella felicità che sembra una combinazione non contemplata nel codice del suo dna, e pure noi lettori smaliziati accarezziamo l’ipotesi di un happy end. La vita, però, non la fa mai così semplice; la relazione tra Marco e Sveva ha uno sviluppo ma in seguito la ragazza scompare e il nostro antieroe ne intraprende la ricerca. Zardi rallenta il ritmo della narrazione e il suo epilogo, ci fa provare lo stesso smarrimento del suo protagonista. Andrà a finire, ancora una volta, come vanno le cose della vita: complicate e imprevedibili, ma nella direzione obbligata della nostra storia personale, dell’essere fatti come siamo. In questa mano di poker non è possibile bluffare, si viene subito sgamati.