La ferita dei non amati (Peter Schellenbaum-1988) di Simona Di Profio

Creato il 12 settembre 2013 da Wsf

Nessuno mi voleva bene; improvvisamente me ne rendevo contro: ero irreparabilmente distante da tutti. Era l’inferno. Questo senso di morte era il mio definitivo calvario.

Ciò che mi sembrava guarito e rimarginato si era riaperto e aveva cominciato a sanguinare; la ferita aperta dalla mancanza d’amore c’era ancora, non si era rimarginata e non si rimarginerà mai, finché vivrò.

Come povere anime alla ricerca della salvezza, vaghiamo inquieti da una spiegazione all’altra. Tuttavia, la carica di energia è più forte di ciò che possono esprimere le parole. E così, proseguendo nel nostro tortuoso cammino, ci nascondiamo la chiara, semplice verità: “Non sono stato amato e continuo a non esserlo”. E’ una verità che vale anche per chi è stato amato troppo o nel modo sbagliato. La carenza d’amore si cela dietro molte maschere. In un senso profondo … questa verità vale anche per coloro che sono stati amati “a sufficienza”. La ferita del non amato è la ferita dell’essere uomo.

La ferita dei non amati è la causa di una carenza di “fiducia di base” (Erik Erikson): se vogliamo guarire questa è a quella che dobbiamo rivolgerci.

L’amore è “anomalo” in quanto accetta ciò che la norma rifiuta.

Poiché la fedeltà alle regole e la carenza d’amore sono legate tra loro, lo studio dell’analista non può essere un luogo di fuga dalle realtà sociali. Al contrario, deve diventare un luogo in cui l’individuo diviene più consapevole di se stesso come punto di incontro tra quanto gli è proprio e quanto proviene dall’esterno. Solo in questo modo si possono aprire nuovi spazi per quegli aspetti di umanità finora rifiutati.

E’ difficile resistere alle parole che provengono dal nostro intimo, proprio come è difficile reggere uno sguardo. Chi da bambino non è stato amato trova difficile amarsi sotto lo sguardo di un’altra persona: continua a sentirsi non amato, anche quando è vero il contrario. Quando invece riesce a rimanere nel campo magnetico di uno scambio di sguardi, diviene vitale e creativo.

Qualche volta il fallimento di una storia d’amore tra due adulti sembra raffigurare la stessa perdita d’amore della prima infanzia; in realtà ciò che avviene in età adulta è già avvenuto tempo prima, nell’infanzia e nell’adolescenza.

Se non siamo stati amati, non ci amiamo. Alla carenza di amore per noi stessi corrispondono delle zone oscure nella conoscenza di sé. Il principio dell’oracolo di Delfi “Conosci te stesso” dovrebbe essere integrato dal principio “Ama te stesso” poiché a livello psicologico conoscenza e amore sono inscindibili.

La ferita de non amati si esprime nelle dolorosa sensazione di essere respinti anziché amati.

Tutti i giochi hanno un elemento comune, ovvero il legame tra due tendenze contraddittorie: una è il trauma, cioè la ferita psicologica risalente all’infanzia, che afferma: “No, non c’è amore”; l’altra è l’Io che, disperato, controbatte: “Eppure deve esserci amore”. Da questa contraddizione nasce una “coabitazione”, una “convivenza” che ci appare naturale soltanto quando siamo abituati a quest’ambivalenza, quando ne siamo prigionieri. E ne siamo prigionieri fino a che il “no2 di uno dei due elementi del conflitto interiore mette a tacere il “si” dell’altro e viceversa.

Chi, da bambino, ha dovuto implorare amore, da adulto è predestinato a questo gioco.

Tanto più egli dà, tanto meno può ricevere, poiché a ogni novo affanno d’amore diminuisce il rispetto per se stesso.

Quando il gioco è stato visto e analizzato in profondità, emerge il desiderio di dare spazio nella propria esistenza all’infanzia e all’adolescenza perdute, così che il passato possa essere recuperato attraverso la capacità di trovare la propria strada e di affermarsi. In questo caso sono assai utili l’improvvisazione, la spontaneità e l’arguzia. In compagnia di queste persone, talvolta mi accorgo di sentirmi fiacco e stanco: e questo, quasi sempre, è anche il loro modo di vivere la vita. Eppure, com’è bello il momento in cui scoprono la leggerezza, la mancanza di premeditazione, la spontaneità!

“Se una persona mi ama, ci deve essere in lei qualcosa che non va” [Paul Watzlawick]

L’amore è tranquillità nel movimento e ricettività verso l’amore di un altro attraverso il proprio donarsi.

Anche se milioni di persone mi abbracciassero, tutte insieme non potrebbero amarmi completamente, poiché io sono un inconfondibile insieme di caratteristiche umane e quindi posso essere incompreso e non amato sotto molti aspetti.

L’analisi corporea, nel senso di una coscienza consapevolezza di ciò che avviene spontaneamente nel corpo, è una componente inestimabile di ogni analisi, soprattutto nel caso di persone che sono fissate sugli altri anziché rivolte a se stesse. … Tanto più direttamente partecipiamo agli stimoli del nostro corpo, tanto meno abbiamo bisogno di lontane immagini ideali.

L’espressione “energia vitale” si riferisce a esperienze generalmente conosciute, verificabili e legate tra loro. Ne cito otto.
1°: l’energia vitale sperimentabile nell’impulso, nell’impeto e nell’accelerazione, quindi l’esperienza dello “slancio” nell’esistenza umana: l’élan di Jean Piaget, l’élan vital di Henri Bergson, il gradiente di Carl Gustav Jung.
2°: l’esperienza della tensione pulsante e della distensione, della carica e della scarica, quindi del ritmo ordinatore.
3°: l’esperienza della tensione polare nel reggere consapevolmente gli opposti psichici, la coscienza polare.
4°: l’esperienza del blocco o ristagno dell’energia vitale in complessi psichici e in tensioni fisiche.
5°: l’esperienza della ripresa del flusso di energia, cioè del passaggio dall’assenza di stimoli all’azione.
6°: l’esperienza della risonanza: sintonia, suono, eco, armoniche vibrazioni.
7°: l’esperienza della crescita di energia mediante una consapevole autoregolazione all’interno del singolo organismo e dei rapporti.
8°: l’esperienza della unione con il cosmo.
Sarebbe più corretto parlare di otto varianti di un’unica esperienza di energia, accomunate da un’intensità soggettivamente vissuta, invece che di otto esperienze distinte.

La definizione di “psicoenergetica” si riallaccia all’esperienza dell’energia: la psicoenergetica rappresenta l’accesso, mediante la psicologia del profondo, all’esperienza dell’energia intesa come esperienza fondamentale dell’esistenza, che annulla le inibizioni e costituisce la premessa per la crescita psicologica. Essa subordina l’analisi dei contenuti dei ricordi infantili, dell’attuale situazione di vita e del futuro potenziale di un individuo, espresso nei simboli, a un criterio comune: il libero fluire o l’ostruzione della vita.

Per uscire da situazioni sfavorevoli, persino da quelle distruttive, bisogna vivere a livello terapeutico ciò che tali situazioni implicano (Fritz Perls).

Scopo di ogni psicoterapia è quello di rendere attuale la capacità di autoguarigione che ogni individuo possiede.

Carl Gustav Jung ha introdotto nell’analisi dell’inconscio la componente finalistica: quale progetto di vita ancora incompiuto, quale possibilità di vita è possibile scoprire in un sogno? Noi ci poniamo la stessa domanda rispetto al corpo: quale possibilità espressiva è racchiusa in esso e vuole liberarsi? Quale messaggio si cela dietro a una voce repressa? Quale luce brilla dietro uno sguardo quasi spento? Quale emozione si esprime in un piede che oscilla?

La sola conoscenza non guarisce, tuttavia è necessaria, in quanto la sofferenza rende più consapevoli e induce alla ricerca della crisi che ci libererà da essa.

La certezza di essere amato non per ciò che è ma per ragioni fortuite perseguita il non amato.

L’amore può trasformare gradualmente l’emarginato compatito e vittima di una carenza d’amore nell’infanzia, in quello che Alan Watts chiama “l’emarginato superiore”, colui che è al di sopra delle parti, che non si schiera con nessuno. Sin dalla prima infanzia egli sa che amore e partigianeria si escludono a vicenda. Il destino della vittima si trasforma in vocazione. Tutti coloro che si sentono obbligati a seguire un cammino individuale e autonomo furono emarginati come Gesù, o senza patria, come Buddha.
Nel Cristianesimo, dove la vocazione viene vista in opposizione al mondo, si giunge inevitabilmente a una tragica conclusione: le persone “integrate” sono più numerose. … Nel Buddhismo, al contrario, la vocazione implica la libertà dalla dipendenza, che gli altri ci amino o meno. Oltre la partigianeria e la dipendenza può crescere un amore che rende liberi noi e gli altri.

Soltanto la rinuncia a un tardivo amore dei genitori può rappresentare la salvezza.
Questo perché la guarigione della ferita psicologica avviene guadagnando l’accesso a un livello più profondo, dove tutti gli esseri umani sono uguali. La sventura di un insufficiente amore parentale non può essere eliminata, ma può essere considerata in connessione con l’esperienza di una carenza esistenziale propria dell’essere umano: la mancanza di sicurezza in questo mondo.

In ogni rapporto c’è complicità, anche nei rapporti tra figli e genitori. Per complicità non intendo corresponsabilità, bensì partecipazione. Chi accetta questo principio, si sente stimolato all’attività e alla responsabilità individuale nel “qui e ora”. L’”evento” diviene esperienza, l’emarginazione un impulso verso la liberazione. Percepirsi non come vittima ma come parte attiva è segno di vitalità. Naturalmente, con questa riflessione non intendo minimizzare la tragicità di innumerevoli ferite infantili, ma piuttosto stimolare ad agire nel presente.
Non esistono forse persone troppo deboli per agire in assenza dell’amore parentale e delle cure di cui ha bisogno un bambino? Anche il più debole dei non amati ha in sé una scintilla della forza dell’eroe potenziale, cioè una piccola possibilità di trasformare l’antico “no” altrui in un “sì” verso se stesso. Il senso di carenza indica che il proprio potenziale di attività non viene utilizzato.

Il depresso “si serve della via traversa dell’autopunizione per vendicarsi sugli oggetti originari” scrive Freud a questo proposito. In questo modo si spiega anche “l’importuna loquacità che trova soddisfazione nello smascherarsi”.

Freud scrive: “Nel lutto si impoverisce il mondo, nella melanconia [cioè nella depressione] si impoverisce l’Io stesso. La persona che elabora un lutto affronta realisticamente la perdita subita. In questo modo, può maturare e arricchire la propria personalità, anche se il mondo è diventato più povero. Al contrario, il depresso si perde insieme con la persona perduta. “Il complesso della melanconia si comporta come una ferita aperta, attira a sé da ogni lato energie di occupazione e svuota l’Io fino all’impoverimento totale.” La ferita aperta della depressione attira ciò che è estraneo e respinge ciò che è proprio.

L’amore si rapporta a una persona nella sua interezza, non a singoli tratti dell’aspetto o del carattere o a singole azioni.

La bellezza, in quanto splendore della verità, è un effetto dell’amore, è amore che agisce. Una persona che ama sinceramente diffonde intorno a sé uno splendore tale che sarebbe assurdo mettere in discussione questa bellezza apertamente rivelata sulla base di criteri estetici.

Le norme hanno senso solo in relazione alla vitalità priva di norme; l’ordine solo in relazione al caos creativo; la mente solo in relazione al corpo. Chi ha dimenticato l’impulso verso la nascita ha ceduto alla morte. Le persone che non danno valore al corpo pensano contro la vita. Insieme con la mobilità del corpo esse perdono anche la spontaneità intellettuale; confondono la vitalità con catene di idee perseguite coercitivamente e concetti sopravvalutati di cui non riconoscono il carattere sostitutivo. Trasudano mancanza di piacere, poiché solo la vera espressine di sé genera piacere: il piacere dell’impulso vitale e di una nuova nascita.

Il nostro compito è di diventare tutt’uno con l’intensità della vita che lotta per esprimersi.

Di tanto in tanto, quasi tutti noi giungiamo a un punto di sopraffazione, dove l’impulso vitale si trasforma in fatica e la gioia di vivere in un senso di apatia che deriva da una pressione psicologica. Poi, una volta o l’altra, ecco arrivare la goccia che fa traboccare il vaso: sperimentiamo il repentino passaggio dall’ancora sopportabile all’insopportabile, dall’impulso alla pressione, quasi come un’espressione del destino.

Se intendiamo la vita come un dovere, la vita diventa pressione alla quale è necessario sottomettersi. Il principio di piacere deve cedere al principio di realtà. Al contrario, principio di energia, che sta sotto il segno di Dioniso, riunisce piacere e realtà nel “sì” a un’esistenza che non abbiamo più bisogno di dividere mediante effimeri giudizi. E’ importante evitare il dolore, ma è altrettanto importante diventare tutt’uno con esso quando il dolore diventa inevitabile e determina la nostra vita.

Due persone rimangono vitali in presenza di un contatto visivo prolungato solo se vivono un’intensa, comune esperienza di comprensione e amore.

La seguente affermazione di Nietzsche vale anche per Nietzsche stesso: “Le persone profondamente tristi si rivelano quando sono felici. Hanno un modo di afferrare la felicità, come se volessero distruggerla, soffocarla.” Anche nei non amati inclini all’eroismo le inibizioni sono più forti degli istinti, la pressione più forte dell’impulso.

“Nessun simbolo può essere genuinamente nello spirito se non è genuinamente nel corpo.” (Martin Buber), cioè se non implica il compimento vitale di un gesto.

Le parole efficaci, che esprimono la realtà, sono quindi gesti linguistici. Come tutti i gesti con cui ci identifichiamo, generano emozioni. Esse attivano l’energia vitale, suggeriscono, riecheggiano, ci trasformano se ci apriamo ad esse come uno spazio risuonante. Al contrario, le parole astratte soffocano l’emozione, anche se generano un movimento convulso. Le persone che sentono il bisogno di raccontare immediatamente tutto soffocano il suono fondamentale del proprio animo, si tengono a distanza da frasi e immagini.

Il voler utilizzare qualcosa, o il volersene liberare, significa prendere le distanze per elaborare un problema dall’esterno, quasi si trattasse di lavorare un blocco di marmo con lo scalpello. Ma questo approccio è contraddittorio e disperato. Dopo tutto, chi ha problemi? Io o il blocco di marmo? E il problema non riguarda forse lo scalpello che tengo in pugno? E’ sufficiente rimanere in contatto: consapevoli, ricettivi, attenti senza essere autocritici (cioè senza il distacco da se stessi generato da un giudizio negativo), poiché null’altro che la sensibilità riguardo a ciò che sta accadendo adesso consente agli antichi modelli di energia di sciogliersi dall’interno e di aprire la via a un olistico gesto vitale. Ciò che conta è dirsi: “Sono io stesso la persona che si interrompe sempre e si mette a tacere, che soffoca la sua naturale emozione. Ora questa persona è parte della mia vita, ha un valore e io mi identifico con essa, senza critiche.” In questo modo ci uniamo alla vita e ci salviamo da noi stessi.

Sono persone che non dipendono dalle cose ma ne sono attratte, che non opprimono ma dedicano attenzione. Tutto ciò che in loro ha bisogno di esprimersi non si rivolge contro ma verso gli altri. Una persona così si percepisce come una creatura lunare, in quanto considera la luce che proietta sugli altri come riflesso della luce di questi stessi altri. Le persone che basano la loro esistenza sull’energia non si abbagliano vicendevolmente ma, al contrario, apprezzano i bagni di sole che ricevono dagli altri e vi prosperano. Non c’è contraddizione nel fatto che siano più attivo di coloro che puntano con tutta la loro volontà all’autoaffermazione. Nella loro rilassata apertura, le persone che vivono di energia attraggono energia.

Gli esseri umani sono sistemi di autosuggestione estremamente sensibili. Determiniamo il nostro destino resuscitando gli antichi ricordi, squilibrando la nostra vita. Continuiamo a rovistare nelle antiche ferite anche quando conosciamo già tutto di esse, generando così nuove ferite fino a che l’intera esistenza è sofferenza e l’unico sentimento è un intenso dolore. Così ci ipnotizziamo dicendo: “Nulla cambia; tutto rimane com’era”. Continuare a tormentarsi con gli antichi ricordi significa tormentare la ferita del non amato, una ferita che può richiudersi soltanto se la lasciamo in pace. Non si tratta di rimozione, ma di guarigione.

A livello psicologico, “essere nel corpo” e “vivere nel momento” sono sinonimi.

Ogni rapporto è polare, in quanto è identico all’area di tensione dal polo complementare. L’attrazione che due persone provano l’una verso l’altra viene ulteriormente rafforzata dalla coscienza delle polarità che esse incarnano come coppia. In entrambe vengono mobilitate polarità che, senza quel rapporto,sarebbero soltanto pura possibilità, vita non vissuta. Da ciò scaturiscono tensione, eccitazione, erotismo. Diversamente, le persone centrate su di sé, prigioniere dei dolorosi ricordi delle vecchie ferite, non possono accedere al gioco polare di un rapporto. … Dopo l’iniziale apertura estatica all’altro e di conseguenza al mondo, l’antica, traumatica chiusura si impone nuovamente. Non ci percepiamo pià dinamicamente nella vibrazione di due poli, ma staticamente come due opposti che si contrappongono. L’antico trauma, la ferita del non essere amati, riaffiora: sono respinto, abbandonato, isolato, non amato. Quale alternativa rimane a due persone che perseguono insieme il modello traumatico se non quella di riaprirsi reciprocamente le antiche ferite causando nuovo dolore?

Grazie al contatto fisico il mondo diviene incarnazione radiosa della cultura. L’apollineo nasce dal dionisiaco. La luce proviene dall’interno. Risplende dal buio e non nel buio come nel Vangelo di San Giovanni.

… come i girasoli, che crescono in tutti i paesi caldi. Volgersi verso il sole e la luce: cercare lo splendore del mondo e delgi altri, assimilando e riflettendo come fa la luna, piuttosto che preoccuparsi narcisisticamente della propria luce. Questo è l’atteggiamento dell’essere umano che basa la propria esistenza sull’energia. … Seguire la traccia del sentimento più intenso non significa ritrarsi nel proprio mondo emotivo ma, al contrario, lottare per l’espressione, la dedizione, il gesto. L’amante non si chiede chi sta amando, semplicemente sa che l’amore sta agendo.

L’esperienza di un individuo sano fluisce in inconscia armonia con il duplice movimento della respirazione. Quando inspira, tende spontaneamente a concentrarsi maggiormente verso l’interno; quando espira, si espande maggiormente verso l’esterno.

La ferita dei non amati è senza parole. Non trova parole per guarirsi. I non amati possono raccontare molto di come sono stati respinti, emotivamente abbandonati, incompresi, ma i loro racconti si riferiscono a periodi della vita in cui erano già in grado di esprimere verbalmente la loro sofferenza. I primi mesi di vita, durante i quali il bambino non è in grado di parlare, rimangono privi di espressione verbale anche in età adulta. … I non amati non potranno mai esprimere a parole ciò che hanno vissuto nella fase fetale e neonatale. Il trauma dei non amati risale al periodo preverbale precedente e successivo alla nascita. Nel contesto terapeutico, le conversazioni sulle esperienze successive sono spesso alibi che distolgono l’attenzione dalla causa primaria, ovvero dalla ferita tuttora muta del non essere stati amati. In assenza di altre possibilità, si parla di qualche cosa che non può essere avvicinato e colto a parole. La muta causa della ferita deve trovare il modo di esprimersi perché le parole che denunciano le successive esperienze di mancanza d’amore possano radicarsi e trovare un senso. Altrimenti, rimangono in una sorta di limbo. Questo dilemma apparentemente insolubile porta spesso ad analisi senza fine o ad amareggiate interruzioni della terapia analitica prima di riuscire ad aprire la desiderata breccia nella comunicazione.

Se la crescita di un bambino è accompagnata dallo sguardo affettuoso di una persona a lui vicina, egli può restituire quanto ha ricevuto: possiede la forza di uno sguardo vitale che, nell’adulto, diviene la forza di stabilire dei rapporti.

Chiunque riesca finalmente a rivivere l’antico dolore sotto lo sguardo partecipe di un altro va oltre il proprio dolore e scopre la propria forza. Ora può dare a se stesso ciò che la madre o il padre gli hanno rifiutato: attenzione emotiva, calore, sicurezza, affidabilità e soddisfacimento dei bisogni fondamentali.
Solo il dolore che rimane bloccato è distruttivo: il dolore liberato, cui è stata concessa piena espressione, è creativo. Per liberare questo dolore, l’essere umano, che è essenzialmente concentrato sui rapporti, ha bisogno di un altro essere umano al quale possa rischiare di mostrarsi.

Non è l’amore, ma la paura dell’amore che rende necessaria la terapia. L’amore esplode spontaneamente nella nostra vita quando ogni resistenza svanisce, sia l’amore per gli altri sia l’amore per se stessi.

Se le persone che da piccole non sono state amate dedicano a se stesse la calda attenzione di cui non hanno potuto godere al momento opportuno, si vivono in modo del tutto nuovo, cioè si sentono amate. In ultima analisi, non è l’amore di un altro che può guarirci dall’antica depressione, ma l’amore che diamo a noi stessi attraverso un’attenzione diligente.

Il dolore non è positivo o negativo, semplicemente, è; è ciò che siamo. La nostra vigile attenzione, allora, diviene identica ad esso. … Quando ci limitiamo ad “accettare” un dolore come se provenisse dall’esterno non accade nulla, se non, forse, lo sprofondare nella depressione o la ricerca di una sovrastruttura religiosa, come la fede in un dio sofferente e in un’eternità senza dolore. Se invece ci viviamo in questo dolore non rifiutato, accadono cose impreviste.
La guarigione non avviene mediante il superamento violento o la repressione del dolore ma, al contrario, stabilendo un legame con l’energia in esso contenuta.

L’amore è indivisibile. Chi esclude se stesso dall’amore lo perde completamente.

“Il vostro cattivo amore per voi stessi da della vostra solitudine una prigione” [Nietzsche]. Le persone che non si sopportano e soccombono all’apatia e all’inquietudine non appena rimangono sole, le persone che non si piacciono abbastanza per sentirsi bene in compagnia di se stesse, sono prigioniere della mancanza di amore di sé. Inutilmente vagano per il mondo alla ricerca di qualcuno che abbia la chiave per aprire la loro prigione dall’esterno. Cercano nuovi amici, nuovi amori, nuovi analisti, nuove guide ideologiche, maestri, guru, lama che svelino loro il segreto della parola magica e li liberino dall’isolamento. Ma la porta della prigione si apre soltanto dall’interno, e loro stessi sono la chiave che può aprire quella porta. La liberazione dalla prigionia nell’Io inizia con l’amore di sé.

Nel Buddhismo non esiste il concetto di redenzione dall’esterno, ma soltanto quello dell’autoliberazione, che implica amore e liberazione dalla prigionia dell’Io. Soltanto l’esperienza personale può aiutare a comprendere questo paradosso.

L’alterità individuale, come per esempio l’appartenenza ad una razza diversa, un handicap, un difetto, un interesse sessuale che contraddice la norma, il mancinismo, un talento straordinario o un vizio disprezzato, indica la fondamentale alterità di ogni essere umano. E’ importante identificarsi con la propria alterità individuale in modo da dedicare un’attenzione amorevole a questo particolare tesoro.

“Tessere un bozzolo con il filo di seta della propria anima, farsi crisalide e attendere la trasformazione” [Strindberg] rende possibile un nuovo orientamento basato sulle proprie risorse.

Che cosa accade in me se non rifuggo la solitudine come un qualcosa di negativo ma divento tutt’uno con essa, ne traggo energia e ne faccio un potenziale di sviluppo? La risposta a questo interrogativo può venirci dalla meditazione, intesa non come contemplazione o visualizzazione di immagini, ma nel senso del buddhismo, soprattutto Zen, come vigile non agire, lasciando consapevolmente che i processi corporei avvengano, specie nel respiro nel suo andare e venire, in rilassata, benevola attenzione verso ciò che spontaneamente accade in noi, in una postura del corpo che stimoli questa attenzione.

Così, nella meditazione emerge che solitudine e amore per l’altro sono identici. Nell’abbandonare ciò che è mio e ciò che è tuo, scopriamo che “la sostanza dell’universo non può strapparsi” [Pierre Teillard de Chardin]; che stare bene con se stessi significa al tempo stesso essere nel mondo o, meglio ancora, essere il mondo; che il corpo con i suoi organi di senso, così come il resto del mondo, sono rapporti, legami ed energia pulsante; che esiste un unico amore indiviso, cioè l’amore per tutto ciò che esiste; e che, infine, l’amore non è altro che questo vigile, ardente essere nel rapporto, che crea unione. Nei momenti di silenzio interiore l’uomo riconosce l’illusoria natura dei pensieri che lo separano dalla vera vita, dall’amore.[Pirandello, L'umorismo].

Ogni segreto è racchiuso nell’arte del lasciarsi andare, del non opporre resistenza.

La compostezza significa rinunciare a ciò che vuole la mia volontà isolata e accettare ciò che ora vuole accadere, essere disponibile, lasciarmi coinvolgere dal reale e perseguirlo.

E’ magnifico essere solo se quell’uno in cui vivo la mia solitudine è il mondo.

Un giorno l’uomo si trova scaraventato nel mondo, come in una “nascita prematura” che dura per tutta la vita, sentendosi familiare ed estraneo al tempo stesso, riflettendosi nell’altro e avvertendo un’abissale diversità. Può ribellarsi a questa contraddizione e diventare un insulso ottimista che nega la segreta agonia dell’essere separato, o diventare un insulso pessimista che rifiuta la sicurezza e la vicinanza. In alternativa, può affermare questa contraddizione: l’amore e la distanza dall’amore, la similarità e l’alterità, il calore dell’essere abbracciato e la freddezza dello spazio vuoto. Amandosi come totalità, egli scopre un nuovo amore e si lascia alle spalle il vecchio amore fatto di debolezza e disperazione, in cui tratteneva ed era trattenuto, era vittima e carceriere. Sperimenta ora un nuovo amore che riunisce in sé distanza dall’amore e essere non amato; un amore discreto e ardente che incorpora la solitudine; un amore che non ha un fine specifico ed è quindi aperto e disponibile; un amore che, amando le ferite d’amore, le guarisce.

La ferita che il non amore ci ha inferto è il ventre dal quale veniamo generati molte volte.

articolo a cura di Simona Di Profio


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