La ferocia dorata degli anni zero, di Andrea Sartori

Creato il 24 agosto 2011 da Fabry2010

Accadde così, un po’ per incoscienza e un po’ per disperazione, o forse perché c’era semplicemente bisogno di sentirsi vivi, guardati, considerati. Mi ritrovai lì, a parlare con un pubblicitario di lungo corso, un signore che voleva insegnarmi il mestiere. Tutto era nuovo, si ricominciava daccapo. La fiducia era doverosa, non si poteva allontanarla ancora. In parte me l’ero cercata, in parte ci avevo sperato davvero, ma in fondo non ne volevo sapere nulla, mi sarei accontentato di fare data entry a un terminale qualunque. Finirla una volta per tutte con le lotte, con le illusioni. Finirla con le immagini, con le aspettative, con le proiezioni del futuro e le relative paure. C’era bisogno di cose, di fatti, di macigni che curassero l’astrazione. Andò diversamente.
Il pubblicitario, lo sguardo acceso, i baffetti hitleriani un po’ fanatici e tremolanti sopra il labbro, m’indottrinava sulla professione: comunicazione, creatività, pubblicità. Marketing. Marketing. Marketing. Mi venivano in mente i vecchi spot craxiani sulla Milano da bere, con tutte quelle luci, quei Martini con l’oliva e lo stuzzicadenti, quelle donne dalle spalle scoperte e dalle gambe lunghe. Insomma, mi toccò apprendere dal tipo baffuto che la mia laurea in filosofia era perfetta per quel tempo, per quel mestiere.
L’aggancio fu beffardo, o forse no, forse fu sincero, genuino: «Io ho mollato la filologia per la pubblicità», mi disse lui, «viviamo ormai nell’epoca dell’immagine del mondo, della Weltanschauung! Dovresti esserne contento, visto che hai studiato Heidegger». Rimasi afono, finché lui proseguì: «oggi non si vendono prodotti, lo sai? Si vendono visioni dell’esistenza, lifestyle, sistemi di pensiero. Chi compra più i biscotti del Mulino Bianco per quel che sono? Li compriamo perché in realtà ci troviamo bene con quell’immagine di famiglia che ci trasmettono alla televisione: il babbo, la mamma e il figlio unico al tavolo, ogni mattina. Il biscotto, il latte, la vita».
Ma che bello, pensavo, quasi quasi ha ragione Aldo Nove, se gli togliamo l’ironia, questo è un mondo davvero molto bello. Io dissi: «all’università ho studiato Adorno e la Scuola di Francoforte, quindi a dire il vero avrei dei pensieri un poco critici, un poco distanti dai suoi, in merito alla società amministrata e all’industria culturale». Mi si spalancò davanti agli occhi un sorriso di compatimento: «la Scuola di Francoforte! Ma siamo ancora qui a pensarci? Questo è lavoro, non è scuola! Non è università! Altro che Adorno! Lo sai come nascono le campagne pubblicitarie di maggiore successo, le idee più creative? Nascono come quella volta che Mario Marenco si mise alla radio e sparò cazzate a ruota libera. Fu un successo, ne uscirono decine e decine di battute, di pay off, di trovate geniali per degli sketch televisivi. Si fece un’industria. Sulle sue cazzate».
Io, ostinato: «quando sono venuto a Milano, avevo in mente una città piuttosto polverosa, anonima, con tante banche, fabbriche e palazzoni alti alti. Non pensavo che oggi il clima fosse così effervescente. Sa, ho visto il film di Carlo Lizzani tratto dal libro di Luciano Bianciardi, La vita agra, con Ugo Tognazzi. Non mi sembra che tutta questa euforia da boom economico fosse in realtà granché motivata neppure allora, soprattutto in relazione al settore pubblicitario e degli eventi culturali». Il baffetto si sollevò: «Ma piantala di pensare ai ciliosi francofortesi e a quel Bianciardi, che è pure morto solo, depresso e alcolizzato, lo sai no? Qui a Milano sei nel mercato, è questa l’unica realtà, lo capisci? Il mercato! Oggi le cose sono cambiate, il clima giacobino di Mani Pulite è finito, l’impresa ha ripreso fiato, va a gonfie vele, è finalmente libera da lacci e lacciuoli statali. Quanto alle fabbriche… di quali fabbriche stai parlando? Sono tutte dismesse, ormai. Vedrai, adesso che torna in auge Ligresti, ci penserà lui a farle convertire con tante belle deroghe al piano regolatore. Avremo grattacieli newyorkesi, da metropoli, centri di ricerca e di servizi, e pure nuove librerie, dove potrai rintanarti anche tu e fare il topo da biblioteca, che ti piace tanto. Il terziario avanzato, avanzatissimo! I libri, il linguaggio, l’informazione, cosa credi: al buon Salvatore non si nega nulla, neppure una scalatina al Corriere della sera, faccio per dire. La comunicazione è il futuro, la comunicazione è potere».
Non capivo: «comunicazione di che cosa? La televisione commerciale fa schifo».
L’altro mise un freno al suo spazientirsi e si fece comprensivo, abbassando la voce: «c’è stata una rivoluzione, lo sai? Nessuno parla più di televisione commerciale e non commerciale, anche quella pubblica è commerciale. Il mercato, ti ho detto, è ovunque. È un fatto ineludibile, su cui quest’azienda punta il massimo, con la benedizione del Papa, di Giovanni Paolo II».
«Che vuol dire?».
«È stato lui ad abbattere il comunismo».
«Oddio».
«Ma sì, l’apertura dei mercati, il mondialismo, sono figli del suo ecumenismo. Senza quello che lui fece in Polonia, e poi a Roma, a rischio della propria vita, noi non saremmo qui a fare l’impresa in questo modo, in Italia, all’inizio del nuovo millennio. L’azienda dovrebbe affiggere l’immagine di Giovanni Paolo II in ogni stanza, proiettarla a ogni convention».
Perplesso: «il Papa artefice nel mondo di una rivoluzione liberale? Della realizzazione del sogno di Piero Gobetti coltivato nell’Italia appena diventata fascista?».
Il pubblicitario rincarò: «lascia stare queste cose vecchie come il cucco, capiscimi. Macché ideologie e fascismo, qui non ce ne sono più, c’è solo il mercato. Al limite ti dico una cosa: non ce ne frega un cazzo delle idee, a meno che non diventino dei prodotti, da vendere appunto sul mercato. Per il resto, se non sono prodotti commerciali, è meglio tappargli la bocca, a chi ha le idee. Se non vendi, muori. Non vorrai tirarmi fuori anche tu quel frocio pervertito di Pasolini? Ti ricordi il Drive in? È cominciato tutto allora. Anche gli intellettuali lo dicevano, apprezzavano quel programma, a partire dal tuo Umberto Eco: si trattava di un’idea rivoluzionaria, la comicità veniva sdoganata, la pallosità della saggezza buttata a mare, il corpo spogliato, liberato. L’Italia rinasceva alla libertà della risata, non del sorriso, ma di una bella risatona grassa, e delle emozioni. E poi… poi è arrivato lui: è sceso in campo Silvio Berlusconi, nel 1994. Con quella calza infilata sull’obiettivo della telecamera, ha dato lavoro a te e a me, lo capisci? È la comunicazione bellezza! È l’aggiornamento del Quarto potere di Orson Welles al post-moderno. Da allora si è realizzata la profezia di quel molosso anarchico di Bakunin: una risata ci ha seppelliti. Solo che questo è avvenuto grazie alla Fininvest. Ah, straordinario! È il sistema aziendalistico, capace di incorporare tutto, di renderlo funzionale. Pensa, Bakunin su Rete4, Bakunin da Emilio Fede, non sarebbe geniale?».
Provai a fare resistenza, ma ormai l’evidenza era accecante: «in realtà, però, quando Nietzsche dice che il mondo vero è diventato favola, non intende fare l’apologia delle balle. Non c’è tutto questo ottimismo verso qualunque cosa, in Nietzsche. Anche se, forse, ecco, Gianni Vattimo, ahimè, con La società trasparente, si avvicinava a qualcosa di simile: tutto comunica con tutto, tutti comunichiamo con tutti, parliamo, diciamo, sappiamo… ecco, forse è vero, forse ha ragione lei. Tutto è lucido. Tutto luccica. Milano è lucida e luccica, dopo Mani Pulite, dopo il muro di Berlino, ogni cosa è pulita».
Il maestro, felice d’avermi quasi convertito, metà Settembrini e metà Naphta, lampeggiante di gioia negli occhi piccoli, aggiunse: «tu adesso devi pensare a Massimo Boldi, mi intendi? Sai quanti soldi ha fatto rivolgendosi all’imprenditore giusto, cioè a lui, proprio a lui, a Berlusconi? Le tue menate su Adorno e compagnia le puoi leggere alla sera, se non vai a divertirti, o la domenica, o quando sarai vecchio. Considerale un hobby, niente di più. Quando lavori non pensare, segui l’istinto e sii propositivo, mai critico, la negatività non paga».
«Ma la negatività deve essere affrontata, fissata in volto! Lo dice anche Hegel nella Fenomenologia dello spirito! Altrimenti non si passa a uno stadio di consapevolezza superiore, non si superano le crisi!»
«In azienda funziona diversamente. Certe cose non bisogna dirle, altrimenti è la fine. Tu lavora su Boldi, studia la creatività di Renato Pozzetto, che ha dato tanto a Milano. I modelli, i padri del tuo lavoro, sono loro. Tu ti occuperai di creatività, sarai nel centro esatto del fare, e il fare è il programma politico di questo governo. Dai, non avere paura, getta il cuore oltre l’ostacolo, osa, ti è permesso! Tutto da oggi è permesso! Metti le palle sul tavolo, porca miseria! Un po’ di bollicine e di colore nella tua attività! Mi sembri tanto una coppa di Cristal, però spento. Ridi, cacchio, ridi, sono anni d’oro!».
«Senta, leggendo il Faust di Goethe risulta tuttavia chiaro che questo ottimismo, questo efficientismo, dovrebbero essere meglio riposti, altrimenti corrono il rischio della solita maledizione, quella del prassismo. Nel senso: il fare fine a se stesso, il fare per il fare, la volontà illimitata di accumulazione…».
«Ma non vuoi crescere? Il fare è crescita, accumulo, sviluppo del Pil e dei soldi. Soprattutto dei soldi. Tra l’altro oggi c’è anche la finanza creativa! Si creano un sacco di plusvalenze con un niente. Non vuoi avere il portafoglio pieno? Non vuoi tenerti il lavoro? Non essere pirla! Santo cielo, delle volte mi sembri un intellettualoide come Carlo Freccero, con quel suo insistere sullo spessore culturale dei programmi. Ricordati, però, che negli anni ’80 proprio Freccero è stato impegnato nel lancio dei canali della Fininvest. Vabbè, allora non c’era ancora Medeiaset, e la logica finanziaria del gruppo non era separata da quella dello sviluppo editoriale. In ogni caso Freccero ci ha messo il service di tutta la sua intelligence, per così dire, il situazionista Freccero. D’altra parte… pecunia non olet».
«Crescere, dunque, d’accordo, ma perché? In base a quale idea, a quale finalità? Andare verso dove, mi scusi? La prego mi risponda, ne ho bisogno».
«Crescita dell’azienda, ampliamento del personale dipendente e acquisizioni di altre società, sviluppo del business e anche della tua professionalità nell’ambito della comunicazione e degli affari. Perché non vuoi capire, è così semplice. Proprio adesso, che il Paese si è emancipato dalla regole rigide del passato, dall’autorità della tradizione. Accidenti! Non c’è niente, in verità, da capire! Vuoi dei valori? Te li progetto io, rifaccio il logo dell’azienda, te ne sviluppo il concept, metto in fila tutti i valori che vuoi, a partire da quello dell’etica, e lo inserisco nel logo».
Balbettai: «però… le regole non sono dei loghi, delle immagini da attaccare al muro o a un pannello all’ingresso della società, o su un sito web corporate. Senza delle reali preoccupazioni deontologiche è nata, ad esempio, la televisione del dolore, e con essa l’irruzione del pubblico mediatico nella sfera privata, intima, delle persone… Alfredino Rampi scivolato nel pozzo artesiano, con la televisione a scandagliare, laggiù…ventiquattro ore su ventiquattro».
E lui: «oggi, a distanza di tanto tempo, quell’esperienza è stata metabolizzata. È diventata format, prodotto culturale: il Grande Fratello. La potenza delle idee è questa, il lutto elaborato porta all’interiorizzazione di nuove immagini, e il mercato ha saputo farlo, esteriorizzando alla fine quelle immagini che erano dentro tutti noi. Ha trasformato il dolore in creatività, e la creatività in prodotto. La gente adesso è pagata per cadere dentro ai pozzi e farsi riprendere dalle telecamere».
«Porca puttana…».
«Le immagini sono reali, proprio perché tutto è immateriale. La realtà, per come l’hai conosciuta fino a ora, salutamela! Addio! Ogni cosa è divenuta irreale, e la tua libertà professionale è illimitata».
«Che cosa? Ma è più complicato di Debord e Baudrillard messi insieme! La società dello spettacolo, la società dei consumi, sono diventate davvero questo?».
«Ah ah ah! Come sei ingenuo. Credi ancora alle cose. Lo sai che l’altro giorno Achille Varzi ha pubblicato sulla Stampa di Torino un articolo dal titolo Il mondo è un buco con la gabbia intorno? Lui e Roberto Casati hanno scritto quel libro sull’ontologia dei buchi, qualche anno fa, sull’ontologia del vuoto delimitato, circoscritto. Ebbene, sai chi ha ideato, ormai sono diversi anni, lo slogan della caramella, quella del buco con la menta intorno? Sono stato io! Ah ah ah! Io! E adesso c’è arrivata anche la filosofia! I tuoi professori mi hanno dato ragione. Il nulla esiste, e io lo vendo, in barba a Parmenide e a quel sapientone che sta a Venezia! Sono furbo, sono creativo, fai così anche tu».
«Francamente, quel libro non mi pare sostenga proprio questo. Bisognerebbe seguirne la logica dell’argomentazione. Lì si dice che i buchi dipendono sempre da qualcosa di reale, di ontologico appunto, sono degli scavi, delle crepe, delle fessurazioni negli oggetti. Non viceversa. È ben differente dal ritenere che basti un tappeto magico, il tappeto magico del marketing, del packaging, se vuole, per camminare sopra i buchi. Se si fa così, ci si finisce dritti dritti dentro, nei buchi. No? Non si chiamano così, buchi, anche i deficit di bilancio delle aziende, gli ammanchi societari? Non sono quelli? Dio non voglia, comunque…».
Il mio interlocutore scosse la testa: «Ma dai, ma che te ne frega alla fine di tutto questo? I soldi, caro mio, non finiscono mai, adesso ci sono anche gli algoritmi della matematica finanziaria, li chiamano derivati. Sono delle formule, delle belle formulette che creano valore – nominale – laddove non ce n’è. E poi, scusa, se va bene alle banche, che sono la struttura trascendentale – come diresti tu – della produzione economica, il sangue del corpo-Paese, perché dovremmo metterci proprio noi a rompere i coglioni su questo punto? I derivati vengono dall’America, da lontano, mica li hanno inventati qui. Non penserai che l’America possa fare delle stupidaggini e andare in default! Cribbio! Piuttosto, tu sei filosofo, o no?».
«Non saprei, forse detto così è troppo altisonante».
«Ti ricorderai di Socrate, della sua esortazione: conosci te stesso. Sei un giovane con una spruzzata di cultura e con quel po’ di talento che basta, hai i numeri per avere successo, probabilmente diverrai un leader del futuro, ti ritroverò un giorno a Cernobbio! Segui Socrate, divieni manager di te stesso! E ricordati di questa chiacchierata: è filosofia aziendale, è maieutica!».
«Nooooooo…!».
Un malessere improvviso mi attraversò lo stomaco, provocando un rigurgito acido in gola. Quella maieutica, praticata a freddo con il forcipe di un brainstorming improvvisato, fra le tre e le quattro del pomeriggio, mi aveva quasi assassinato. Percepii, all’istante, il peso di una solitudine cosmica, il rischio di rimanere incastrato anch’io in fondo a un pozzo, a un buco, con degli amici immaginari intorno a me: Max Horkheimer, Walter Benjamin, Erich Fromm, Herbert Marcuse, Sigfried Kracauer… quel Siegfried – già avevo iniziato a chiamarlo confidenzialmente così, con il nome di battesimo – che aveva scritto di cinema sulla Frankfurter e che guidò Theodor Adorno nella lettura di Kant.
Dopo tutto, riflettei, anche Eco e Vattimo erano stati perlomeno tentati da quella strada lì, quella del pubblicitario. E… a Cernobbio ci andava pure Bertinotti!
Mi risolsi allora, sebbene a malincuore, vigliaccamente, per la fiducia, per quella fiducia che mi veniva richiesta a gran voce, con le vene gonfie a solcare le tempie arrossate e congestionate dalla foga della persuasione, ma in fondo così, da parte mia, un po’ per incoscienza e un po’ per disperazione, a dispetto dei calcoli e dei sentimenti, o forse perché volevo anch’io essere tirato a lucido come la Milano di quegli anni. Tramutarmi nell’ingranaggio bene oliato di un sistema che mi legittimasse all’esistenza. E avere finalmente un lavoro. Ah, la fiducia! Che bello!
«Ma sì», pensai, «vaffanculo ai francofortesi, alla pubblicità, al mercato e a Cernobbio. Sarò un individualista. Anzi, un individuo, però mascherato. Tipo Zorro».
Feci un respiro profondo, mi tappai idealmente il naso, la bocca e le orecchie, mi tuffai ad abbracciare quella buffa e squinternata caricatura di Hitler, che ricambiò il mio abbraccio con sollievo, e da allora mi stimò tanto sul piano professionale.

Oggi, a distanza di un bel po’ di tempo, leggo queste parole dall’introduzione di Geno Pampaloni a La vita agra di Luciano Bianciardi:

«“io” è divenuto sempre meno personaggio, e sempre più luogo di un rapporto con la realtà, spazio problematico, nodo di crisi. Con il declinare dei valori e dei parametri che misuravano la realtà e la disponevano secondo l’ordine della storia attorno a un destino di vita, quel rapporto è divenuto casuale, affannoso, sincronia impazzita; e sempre più sbilanciato, poiché “io” si è trovato davanti, da riempire, il vuoto lasciato da ciò che egli non ha trovato di meglio che definire “irrealtà”; costretto ad assumersi per così dire il carico di sostituire con la sola coscienza di sé l’infinita imprevedibilità e cangianza del reale».



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