la fiat del 2010, da ” Il vento racconta” – Bastogi editrice, 2007- Fernando Martella

Creato il 01 dicembre 2011 da Fernando @fernandomartel2

Il vento racconta…

Anno 2010

Era patrimonio di tutto il paese, nel bene e nel male da oltre un secolo e mezzo aveva costruito le vecchie auto a benzina per tutti i ceti sociali dando lavoro a tante famiglie italiane, aveva sì passato periodi di stasi, se non di vere e proprie crisi, ma aveva sempre trovato in se stessa e nei suoi creativi ingegneri e disegnatori, la capacità di tirare fuori nuovi modelli, nuove soluzioni tecnologiche che gli permisero di superarli.

Poi vennero le DOUMAKE MOBIL cinesi a idrogeno, che invasero il mondo e la Fiat entrò in una discesa a vortice.

S’avvitò su se stessa e, nonostante i tanto copiosi quanto inutili finanziamenti profusi a sostegno del settore dai vari governi di quell’epoca, dopo un po’ fu presa l’amara decisione: la fabbrica sarebbe stata chiusa.

Le multinazionali e le finanziarie del settore delle costruzioni si buttarono sull’area preparando progetti per la distruzione del vasto immobile che era stato Mirafiori e per la costruzione di un’intera città al suo posto.

I plastici messi in mostra nel 2006, durante lo svolgimento delle olimpiadi invernali di quell’anno, al concorso indetto per la destinazione dell’area, erano uno spettacolo: parchi e fontane, garage sotterranei e a diversi piani completamente automatizzati, negozi stellari d’una casa americana di cibo precotto che aveva invaso il mondo con le sue porcherie fritte e rifritte in oli di chissà quale natura e le nuove sale per il cinematografo interattivo, l’ultima invenzione tecnologica, che si proiettava direttamente sull’aria e che permetteva allo spettatore di entrare in scena con il ruolo che si sceglieva.

Progetti fantastici e bellissimi.

Ma la quinta lega di Mirafiori, la gloriosa sede del Sindacato dei metalmeccanici dalla quale erano partite tutte le battaglie dei lavoratori per tutti quei centocinquanta anni di produzione dell’auto, si opponeva allo smantellamento degli impianti e della fabbrica ritenendola una struttura di proprietà dello stato e dei lavoratori.

Vecchie incrostazioni mentali derivanti dai sindacalisti bolscevichi del secolo precedente, che però intanto stavano impedendo l’inizio dei lavori alle grandi ruspe da tempo pronte sui piazzali.

Il fronteggiarsi della polizia privata delle multinazionali della NUOVA COMPAGNIA MONDIALE DEL CEMENTO e degli occupanti era sfociato più volte in veri scontri a fuoco con proiettili di gomma per ora, ma tutti si aspettavano che l’incrudirsi della crisi sfociasse, prima o poi, in un dramma.

Il dibattito sull’uso dell’area e delle strutture della vecchia fabbrica coinvolgeva tutti i cittadini della nuova S.U.d’E., gli Stati Uniti d’Europa, la nuova Confederazione Europea da poco nata in contrapposizione allo strapotere degli U.S.A. e al tentativo di questi di annettersi l’intero globo sotto la bandiera a stelle e strisce. Fu ad un concorso scolastico nelle scuole di una provincia dell’ultimo Stato che era entrato a far parte dell’U.E., la Romania, che ad una bambina fu assegnato il primo premio per il suo svolgimento al tema che era stato dato in tutta Europa nella ricorrenza del Giorno Della Terra: “COME USERESTI L’AREA ED IL TERRITORIO DELLA FIAT DI TORINO?”

La piccola Rebeca, la più giovane di tre sorelle, frequentava le seconda media. Figlia di una coppia rumena emigrata a Madrid, appena l’apertura della frontiere permise di scorrere liberamente aldiquà dell’ex cortina di ferro, alla gente di quegli Stati affamati per mezzo secolo dallo Stato occupante: la Confederazione Sovietica e i servi che governavano quelle Nazioni. Fame tagliente come la falce e dura come il martello di cui si fregiavano le bandiere degli oppressori.

Rebeca era una donnina dagli occhi neri come la pece e vivi come due stelle. A lei divertiva molto quello che stava avvenendo a Torino e lei ed alcune sue amiche avevano cominciato a scommettere sui vincitori della prossima battaglia. Le giornate di studio erano lunghe e a casa doveva svolgere i suoi compiti di pulizia insieme alle sorelle. Per non far assopire la sua fantasia, aveva cominciato a raccogliere ingenue scommesse tra i suoi compagni di scuola. La lotta tra operai e milizie era forse l’unica notizia divertente o, almeno, una delle poche e le sarebbe spiaciuto che queste smettessero, perciò lei proponeva che nei giorni di festa e nei fine settimana, nelle vacanze estive e quelle natalizie, fossero organizzate delle vere e proprie battaglie per i cittadini che volessero arruolarsi nelle milizie private e quelli che si schieravano da parte delle tute blu e, con proiettili di vernici, ci si combattesse nei meandri delle officine tra i torni e le presse.

Chiaro che alla domenica pomeriggio, dopo aver contato i “morti” dell’una e dell’altra parte, si premiassero i vincitori.

La sua idea stupì il mondo adulto e gli “amici del quartierino economico” pronti a trasformare in plus-valore anche la bava di una lumaca, ci si buttarono a pesce. L’investimento richiesto era praticamente vicino allo zero e si potevano usare i cassintegrati pagati dalla comunità con la scusa di lavoro socialmente utile, per i COMITATI DI VIGILANZA e di ACCOGLIENZA e PREMIAZIONE.

Nel duemilaotto fu dato il via al primo combattimento sperimentale, erano nati i club delle CAMPAGNOLE, le vecchie jeep prodotte nel lontano 1945 dalla Fiat per la SECONDA GUERRA MONDIALE e, bardati con le vecchie tute mimetiche i miliziani e con le vecchie tute blu gli operaisti, si era aperta la caccia.

I primi, ed anche i più feroci combattimenti, furono quelli tra i veterani del Sindacato e quelli della vecchia Confindustria. Si diedero la caccia senza sosta per quarantotto ore, solo al suono della sirena, ripetuto ben tre volte allo scoccare delle dodici della domenica, furono interrotti i combattimenti e decretata la vittoria dei Confindustriali, premiati con un numero pari alle vittime di pupazzetti di plastica fluorescente in tuta blu, con i quali qualcuno cominciò ad ornare la DOUMAKE con la quale viaggiava in settimana.

La cosa aveva preso piede così bene che, spesso, erano costretti a rifiutare le prenotazioni. Arrivavano da ogni parte del mondo. Intere comitive venivano fermate sui piazzali davanti a Mirafiori da dove erano state definitivamente spostate le ruspe gigantesche con le quali si pensava di demolire. Si erano organizzati nei parcheggi dei quartieri generali di combattenti omogenei i quali, nell’attesa che arrivasse il proprio turno di poter guerreggiare, si esibivano con musiche e cibi, in manifestazioni tradizionali proprie che facevano arrivare su quei luoghi altrettanta gente ad ammirare le danze scozzesi con le loro cornamuse, o le guardie svizzere del Vaticano con le loro alabarde, l’Armata Rossa che si esibiva in numeri circensi e gli emigranti rumeni, che si portarono la piccola Rebeca come mascotte, accampati nel glorioso stadio Filadelfia (quello del GRANDE TORINO caduto sulla collina di Superga). Il settore si sviluppò completamente nel duemilanove, quando arrivò a Torino il giorno dei Presidenti. Da tutto il mondo, tutti i presidenti di tutte le Nazioni, si iscrissero nelle Milizie e combatterono per un’intera settimana, in occasione di un ponte lungo per la festa della Madonna in mezzo a due domeniche, contro operai arrivati anche loro da ogni parte del mondo tranne che dai paesi ancora coinvolti in guerre vere. Da loro preferivano giocare alla pace tra un combattimento e l’altro. Oggi in questo settore sono occupati a tempo pieno oltre centocinquantamila persone tra servizi di pulizie, manutenzioni, infermieri e altri ruoli meno affollati, ristorantini, birrerie e le lavanderie ad esempio: l’indulto!



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