Francia, 2014
40 minuti
Origina e si sospende a tutti gli effetti in quello stato d'alterazione suggerito dal titolo, il paradisiaco mediometraggio rivelazione di Safia Benhaim, giustamente premiato con un Tiger Award (vinto in ex aequo con la coppia Russell/Rivers e i rispettivi corti: Greetings to the Ancestors e Things) all'ultimo IFFR. Un autentico incantesimo, generato dall'incontro/congiungimento in forma onirica di due esistenze, e un solo corpo, al centro di un viaggio che si colloca su due differenti piani temporali, attraverso un accurato montaggio parallelo: un presente, raffigurato dal delirio febbrile di una ragazzina, giacente sul sedile posteriore di un auto mentre attraversa la città durante la notte; e un passato, idealizzato da quest'ultima tramite l'evocazione del fantasma di un'esiliata politica che al tempo, attraversò il mare per far ritorno alla propria terra: il Marocco. Allo stesso modo, tale scenario realmente ispezionato a seguito dei conflitti della Primavera araba del 2011, è l'intenzionale riferimento politico alle lotte avvenute negli anni Settanta per la decolonizzazione del paese. Trattasi però di una visuale solamente immaginata (come dichiarato dalla stessa regista: è una storia reinventata dai parziali ricordi della madre), che si priva del proprio corpo politico, esulando quindi dall'effettiva raffigurazione di suddetti eventi, se non per quella voce narrante che si limita a descriverli (anticipando una futura insurrezione) in maniera frammentaria, estraniandoli dal contesto originario e, di conseguenza, dall'immagine riprodotta. Un'immagine, al contempo scissa dal buio interiore circoscritto nelle intercapedini di strutture dal prospetto architettonico, minuziosamente perlustrate al passaggio dell'evanescente presenza/bambina (qui, un estratto), e testimoni inamovibili di conflitti perduti. Le schegge di un passato bellicoso finiscono quindi per restare pressochè invisibili, sepolte nel fondale di un paesaggio estatico che assume netta preponderanza, costantemente sorvolato dalla placidità di una camera fluttuante; la lenta ed incessante esplorazione di uno spazio desertico e quasi del tutto inabitato, fatta eccezione per sporadiche manifestazioni di vita (una donna al lavoro nei campi, due animali, una pianta imponentemente ripresa dal basso). È dunque attraverso una dimensione prettamente sensoriale, che La Fièvre trova assoluto compimento, avvalendosi oltretutto della suggestività effusa da un tappeto sonoro a dir poco sconvolgente (composto da Arthur B. Gillette), che nel suo incedere altamente ipnotico favorisce quell'alterazione dello stato di coscienza; quell'inevitabile sensazione di straniamento, di profonda immersione nei meandri dell'onirico. Capolavoro!