di Iannozzi Giuseppe
La domanda implica ragionamenti orgiastici, esternazioni plateali che ripercorrano nelle curve del glande la grandeur di un Occidente sottomesso eppure emancipato, una quasi Gorgone maschia di tutte le miserie dei terzi mondi, di ogni latitudine e razza – anche aliena. La scelta di Melissa P., forse alter ego virtuale di una innocente scribacchina rampante amatissima (e non solo in senso letterale o metaforico) sempre a suo agio nelle posizioni delle nuove comunicazioni culturali, è quella di transitare sulla via della meditazione giocando a rimpiattino con la caduta dei sentimenti: un estemporaneo “nessun governo” (forse l’alter ego, fantasma di Lei) gli commissiona un diario, da partorire in tempi brevi, in cui la scrittrice mostri di andare alla ricerca di un briciolo, anche (im)palpabile, di vera passione. Unica italiana tra autrici europee e americane, la nostra Proust in gonnella e la sua “nobile figa” si ritrovano responsabili, in qualche modo, del declino dell’impero occidentale, poiché il governo delle Huri, con questa destabilizzante manovra pseudo-culturale, prepara l’invasione – non solo psicologica – del nostro antico patrimonio genetico inquinato, viziato e comatoso.
In perenne ripresa soggettiva, la scrittrice appena adolescente in “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire” mostra di non esasperare le sue perversioni già di per sé esasperate: scrive, pensa, annota meditazioni sciroppate su scontrini-fatture di lavoro a tutto campo, viaggia per appuntamenti al buio e scambi di coppia, si sposta tra le abitazioni di mezza Italia, si collega con le infinite rotte della vita, privilegiando i siti pornografici. E soprattutto concede ampio spazio alla sua esagitata ferita, che gli procura orgasmi liberi e fragorosi fra le braccia, le gambe e le bocche di uomini-clienti disposti a pagare le sue magistrali prestazioni esenti da complicazioni sentimentali.
Il campionario maschile è una selva oscura e arrapante, le tecniche sessuali della scrittrice-spintria sfiorano vette di erotismo acceso e frenetico assai lontane dal sesso meditativo-acrobatico del Kamasutra orientale. Dall’ultracinquantenne che rischia una miracolosa eiaculazione precoce al semplice borghese e cattolico padre di famiglia che cerca solo parentesi silenziose di sesso totale (fatale), la sfilata degli inventati puttanieri è uno spazio infinito, e lei simpaticamente “offensiva”, con qualche tono di superiore femminilismo – che farebbe inalberare i maschilisti più accesi. La protagonista e il suo Io, forse alter ego quest’ultimo, attraversano una stagione, quella de “Le parole che non ti ho detto”, senza dar prova di esaurirsi sulle sorti dell’Occidente, quello stesso Occidente che invano ha tentato di disegnare Tiziano Scarpa in “Kamikaze d’Occidente”: esse (le parole non dette, ma soprattutto le sorti dell’Occidente), d’altronde, paiono già stigmatizzate da raffiche di dannazioni mediatiche costruite a letto (o a tavolino, se si preferisce) per accendere i riflettori su ogni inferno possibile. E la donna-bambina (comune occidentale) passa – così come potrebbero passare le intellettuali vittime che furono del Divin Marchese con le sue lettere debordanti ad amici, potenti e defunti ma soprattutto nudi nella loro nudità – per tutta una serie di genuflessioni massime divenute imperative, in una superficialità generalizzata in cui si fatica a distinguere – e a setacciare – la profondità vaginale dei sentimenti.
Niente passione, dunque, tra invenzioni erotiche da pellicola hard e considerazioni variamente spinte sugli uomini, tra le fratte italiane in culo ai lupi e il valore aggiunto dello sperma e tra il significato dell’eiaculazione solitaria, ma anche tra la sterilità feconda della nostra epoca, tra l’inutilità utile dei sondaggi (degli exit pool) o le manifestazioni dell’Essere. Niente passione, oppure è proprio questa la passione estrema, un tuffo “puffesco” e divertito nelle basse pulsioni del nostro tempo, dove la tentazione di temporeggiare e di demonizzare i luoghi comuni del perbenismo arricchito diventano l’opera d’arte estrema della donna-bambina, eterna adolescente occidentale? L’ultimo baluardo, prima che arrivi a inondarci una nuova epoca o orgasmo: e alla resa dei conti, finalmente, come si chiede il finto non-giovane J. T. Leroy, è “La fine di Harold?”
Il percorso di vuoto strisciante, direbbe probabilmente la protagonista Melissa P., che separa la sua “nobile figa” da un fittizio rifugio momentaneo dentro un uomo a quello successivo. E quanto di Melissa P. c’è in Melissa P. dei “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire” protagonista-specchio così platealmente riconoscibile?
“Madame Bovary c’est moi”, sosteneva quel vecchio sporcaccione di Flaubert. Ma da Bertha Thompson a Liala, da Diane Di Prima a Jennifer Weiner, quante scrittrici hanno violentato il loro tempo attraverso l’iperbole di sé stesse!
In un’ouverture di millennio così asettica e infida, così risibile e altezzosamente tronfia, è naturale che Melissa P. sia sé stessa e il suo contrario, in questo anomalo, spassoso, fittizio – ci auguriamo – canto del cigno dell’Occidente.
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