Spiaccicai il naso contro il finestrino cercando di capire dove ci trovassimo. Il treno, semideserto in quel martedì d’inizio dicembre, era diretto con oltre due ore di ritardo verso Milano. I pochi, insonnoliti passeggeri erano perlopiù gente d’affari che aveva sonnecchiato per tutta la durata del viaggio, cullata dal costante ronzio del treno e dall’aria calda che investiva lo scompartimento a ondate regolari. Un’inconsistente patina di brina e nevischio era scesa a sbiancare le dolci curve degli Appennini, rallentando ulteriormente il già disastrato traffico ferroviario.
Animo di mare, vento di tempesta, gridale forte che lei sola non restaAnimo di mare, vento di ponente, dille solo che è sempre nella mia menteOh animo soave, pozzo di malinconia, fa si che lei ritorni a esser mia
Era dolce e insieme triste, perfettamente aderente al mio umore di quella sera, e più volte me la ripetei a mente sotto la doccia e poi a letto, mentre scivolavo lentamente nel sonno. Mi risvegliai dopo quelli che mi parvero pochi minuti, improvvisamente all’erta, con la certezza che il mio sonno fosse stato interrotto da qualcosa. Nelle fitte tenebre della stanza riuscivo appena a distinguere la sveglia digitale i cui numeri lampeggiavano debolmente di verde. Era da poco passata la mezzanotte. Accesi la luce, cercando di capire cosa poteva esser sbattuto o caduto, ma era tutto in ordine: la finestra chiusa, la valigia poggiata contro il muro e i vestiti accatastati sulla sedia. Stavo per ributtarmi il piumone sulla testa, quando lo udii.
Un flebile lamento, un piagnucolio sottile e insistente, sempre uguale, che sembrava provenire dalla stanza accanto. Un brivido che non aveva nulla a che fare col freddo mi percorse la schiena in un guizzo veloce che mi accapponò la pelle. Ero convinta di essere la sola a quel piano. Probabilmente mi sbagliavo, mi dissi, cercando di mettere a tacere le assurde e macabre fantasie da film dell’orrore di terz’ordine che stavano facendo capolino nei miei pensieri. Ma il lamento continuava, a tratti più acuto, a tratti interrotto da colpetti simili a singhiozzi. Non saprei spiegarlo sensatamente, ma qualcosa in quei suoni sconnessi riuscì pian piano a tranquillizzarmi: vi era come una nota tenera e insieme infelice che mi fece percepire il tutto come una richiesta d’aiuto piuttosto che un maleficio. Al di là della parete poteva esserci una persona, con ogni probabilità una donna a giudicare dal timbro quasi musicale del lamento, che forse aveva bisogno d’aiuto. Infilai la vestaglia e con mano tremante girai la chiave nella toppa. La porta si aprii con l’abituale cigolio e io trattenni il respiro, non udendo più il lamento. Nel pianerottolo immerso nel buio spiccava la striscia di luce gialla che proveniva dalla porta socchiusa della stanza 88… Allora era vero, c’era qualcuno! Mi avvicinai in punta di piedi, col cuore che mi martellava forte nelle orecchie, e più volte fui sul punto di sgattaiolare in camera senza guardarmi indietro e chiudere la porta a doppia mandata. Eppure quando ebbi dinanzi a me la porta non esitai a spingerla con forza, non aveva senso aspettare e crogiolarmi nella mia paura. Quello che vidi era strano e normale al tempo stesso. Nella stanza, un unico locale senza bagno, non c’era nessuno. Per certi versi era una normalissima camera d’albergo – come la mia era arredata con un enorme armadio, un letto a una piazza e mezzo e una scrivania incassata sotto la finestra – ma era addobbata in tutto e per tutto come la stanza di un’adolescente: un piumone a fiori colorava il letto disseminato di cuscini e peluche strapazzati, le tende erano di impalpabile satin rosa, le pareti ricoperte di poster e ovunque era disseminata un’incredibile quantità di abiti e scarpe femminili. Un tenue aroma di lavanda impregnava l’aria e stranamente mi calmava. Non c’era nulla da temere, lì. Ma dov’era lei? All’improvviso mi accorsi di un particolare che non avevo notato prima. Qualcosa brillava sul piumone, tra le morbide onde di stoffa e il caos di pupazzetti. Mi avvicinai e presi in mano una bottiglietta simile in tutto e per tutto a quella che la mendicante mi aveva regalato la sera prima: conteneva una polvere colorata, quasi fosforescente, ed emanava intorno a sé un’aura di luce che sembrava uno sciroppo d’arcobaleno, tali e tanti erano i colori da non poterli nemmeno distinguere; sul vetro trasparente alcune parole erano vergate in inchiostro nero. Le lessi ad alta voce, dimentica di ogni cosa che non fosse quella meraviglia di luce che avevo tra le mani, e arrivata alla fine seppi istintivamente cosa dovevo fare. Non l’ho mai raccontato prima ad anima viva e so che può sembrare follia, ma la mia mente macinava ininterrottamente un unico proposito, l’intero mio corpo tendeva verso quella meta. Era mai possibile che qualcosa di pericoloso, malvagio o addirittura luciferino potesse esser accompagnato da una sensazione così intensa di pace, dalla più serena e lieta convinzione di essere nel giusto? Non riuscivo a crederlo. Seguendo il canto della voce conosciuta, che adesso intonava la filastrocca in una nenia infinita e silenziosa, scesi a perdifiato le scale, attraversai l’atrio vuoto, dominato dalle ombre, e fui nel gelo della notte cittadina. Nel mio cammino non incontrai nessuno. Attraversai il corso deserto, un luogo fantasma addormentato eppure vigile, che mi scrutava con sospetto mentre avanzavo sicura e raggiante verso la mia meta. Il mare. Passato il corso mi ritrovai in un viale buio, costeggiato da fila di ville con enormi cancelli in ferro battuto che si curvavano su di me, sospetti, mentre un vento sempre più forte strappava le foglie dagli alberi e percuoteva i lampioni rimasti accesi, facendoli sibilare nella loro luce tremolante. Iniziavo a sentire l’aroma del mare, la furia scrosciante e rabbiosamente impotente con cui percuoteva la scogliera artificiale del lungomare. In lontananza bagliori rossastri annunciavano tuoni il cui eco vibrava soffocato e minaccioso nel silenzio della notte. Di lì a poco sarebbe arrivata una tempesta. Il mare era inferocito, onde sempre più alte ghermivano nuovi lembi di roccia, schiaffeggiando con forza il cemento degli argini.Presto avrebbe guadagnato la strada, ne ero certa. Non aveva più senso aspettare, era il momento giusto. Mi sporsi più che potevo oltre il muretto che si affacciava sugli scogli, il busto teso verso l’acqua e il viso spruzzato di salsedine e minuscoli getti di acqua salata. Ancora un po’ e sarei caduta, ma non m’importava. Tolsi il tappo della bottiglietta e la capovolsi. Un miliardo di granelli fatati turbinarono nel nero assoluto dell’aria, affollandola di stelle multicolori che il vento portò sempre più in alto, fino a perdersi nelle nubi scarlatte. Per pochi istanti mi sembrò di essere avvolta nel cielo stellato come in un mantello, e perfino il mare parve acquietarsi. Le stelle pulsavano lampi di luce accecanti, io ridevo ed era così bello…così bello…Lo stridulo scampanellio della sveglia mi strappò impietosamente al mio sogno. Erano le otto, constatai con disappunto. Infilai gli abiti stropicciati del giorno prima, riservandomi di fare una doccia e cambiarmi al ritorno, e corsi al primo piano sperando di trovare ancora qualcosa di commestibile senza dover affrontare la faccia arcigna del portiere. Fui piacevolmente sorpresa dalla simpatica cameriera che mi servì un cornetto e mi preparò il cappuccino, mentre due tavoli più in là del mio una coppia in avanti con gli anni chiacchierava in inglese sorseggiando un espresso. Il solo odore del caffè bastò a dissipare le ultime tracce di sonno. Mi sentivo in forma, stranamente riposata nonostante le condizioni del mio letto - strattonato e sventrato fino all’inverosimile - mi avessero indicato che dovevo essermi agitata parecchio durante la notte. Il sogno. Lo ricordavo alla perfezione, il che decisamente non era da me.«Dormito bene?» la voce della cameriera mi strappò alle mie riflessioni. Mi stava portando un tazzone fumante e sorrideva gentilmente.«Si, grazie – ricambiai il sorriso e alzai la testa verso di lei. Fu allora che mi accorsi dei ritagli di giornale incorniciati e appesi sul muro. Non riuscii a leggere nulla, ma fui immediatamente colpita dalla foto in cui mi sorrideva la ragazzina che mi aveva chiesto l’elemosina la sera prima. Che strano, pensai tra me. Eppure ero certa di non sbagliarmi: stessi lineamenti, stessi capelli sottili e arruffati, candidi nel bianco e nero della foto, e soprattutto stessi grandi occhi malinconici. Tirai la cameriera per l’uniforme, come aveva fatto la ragazza con me il giorno prima. Lei si girò, stupita.«Chi è?» chiesi con un nodo in gola. La ragazza seguì il mio sguardo sulla parete e quando capì a cosa mi riferivo il suo volto si atteggiò a una maschera triste, leggermente affettata.«Ah, lei!» scosse la testa. «Era la figlia del proprietario dell’albergo. L’avrà conosciuto ieri sera, quand’è arrivata. La poveretta si chiamava Serena, aveva soli diciassette anni quando è morta…è successo dieci anni fa.»La giovane si interruppe per guardarsi attorno e poi si chinò verso di me con fare cospiratore. «Pensi, si è suicidata! Il suo fidanzato era un pescatore, morì in mare durante una tempesta, se non sbaglio proprio in questo periodo… Era prima di Natale, comunque. La poveretta non si riprese mai dal colpo e qualche giorno dopo la trovarono in camera con i polsi tagliati. Pensi che è successo proprio qui e…» s’interruppe di colpo, improvvisamente consapevole di aver detto troppo.Dunque era successo proprio lì! Non avevo bisogno di sapere in quale camera. Seguita dallo sguardo attonito della ragazza e dei due turisti stranieri, uscii quasi correndo dalla sala e in un attimo fui in camera. Cercai a lungo la bottiglietta, buttai all’aria tutti i vestiti e aprii decine di volte ogni cassetto, ma sembrava sparita nel nulla. L’avevo forse sognata? Avevo sognato anche l’incontro della sera prima? Com’era possibile, se lo scontrino della pizza era ancora accartocciato nella tasca del mio giaccone? C’era un unico modo per saperne di più. Una vaga inquietudine stava rapidamente prendendo il posto dell’agitazione quando mi decisi e abbassai la maniglia della camera 88, convinta di trovarla chiusa come qualsiasi camera non occupata di un hotel. Lo stomaco si contrasse dolorosamente quando la porta cigolò e si spalancò senza alcuna pressione da parte mia. Nella stanza non c’era nulla, né un armadio, né una scrivania, né oggetto alcuno: solo un letto spoglio, e abbandonata sul materasso sporco la mia bottiglietta, vuota, che non luccicava più. La presi con mani tremanti e lessi, vergato in una calligrafia piccola e arrotondata, piena di delicate curve quasi infantili:Grazie
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