La filosofia stoico-depressa del queueing

Da Aoirghe

C’è qualcosa che gli inglesi sanno fare molto bene: la fila.

Non è uno stereotipo, non è allucinazione: sono capaci, davvero, di fare la fila. Per me, italiana e abituata agli assalti di feroci vecchiette alle Poste e al supermercato, è un fatto rilevante: un popolo che sa stare in coda, senza scavalcarsi, senza spintonarsi, senza creare imbuti a sfondamento, è gente da rispettare. Persone che, a loro volta, rispettano: l’ordine, le regole, l’educazione, il tempo. Londra, nonostante sia per certi versi un luogo molto più selvaggio e scontroso, non fa differenze: si fa la fila alla fermata dell’autobus, sulle scale mobili, al supermercato, al post office, dal GP, al caffè, al museo. Guai a infrangere l’equilibro: un piede messo male o un atteggiamento sospettoso, in stile sto-aspettando-il-momento-migliore-per-superarti, possono scantenare un linciaggio (morale) collettivo.

Anche nel contesto coda, la parola più amata e usata è sorry. Sorry se ti ho guardato, se ti ho sfiorato il gomito, se il mio carrello ha leggermente urtato il tuo. Li guardo e, sì, li ammiro. Vorrei che anche noi fossimo, in questo, più simili a loro; vorrei non vivere l’attesa alla cassa del centro commerciale come un’imboscata, vorrei essere sicura che il mio numero stropicciato, in Posta, valga davvero qualcosa. Ad ogni modo, c’è qualcosa di enigmatico, nella cultura inglese del queueing. Non è solo rispetto. Sembra quasi rassegnazione. Loro aspettano, uno dietro l’altro, consci che il tempo comunque non si può fermare e che ci sarà un turno per tutti; aspettano, e non è vero che non sono di fretta, anzi, talvolta sanno essere le persone più di corsa del pianeta, però devono accettare che la lentezza è un elemento imprescindibile. Come la pioggia, o la morte.

Li guardo e mi viene in mente molto altro: le considerazioni di Billy Bryson, quando lasciava intendere che gli inglesi sono sempre stati un popolo atto ad accettare ogni tipo di sopruso, politico, sociale o gossipparo, e quello che questo Paese è diventato, cioè terra di conquista per banchieri e capitali e un luogo difficile da abitare se si hanno pochi soldi, tanti figli e una storia modesta. Ogni Paese rifugge i propri demoni, o sceglie di ingoiarli, sorridendo a ogni crepuscolo: la forma, le apparenze, restano importante, la forma è quasi tutto. Gli italiani si lamentano tra le quattro mura di casa, senza muovere un muscolo fuori, e gli inglesi sanno stare in fila: modi diversi per lasciare che accada ciò che accade.

Un po’, ogni tanto, gli inglesi in coda mi sembrano tristi: vorrebbero forse essere da un’altra parte o forse, anche se non lo ammetterebbero mai, vorrebbero scavalcare il vicino e ordinare il caffè al volo, per poi fuggire in strada, a riprendersi il tempo che spiove dalle loro giornate.

Il queueing è una pratica gentile e malinconica, non si parla e non ci si tocca. Rassegnati, sanno che anche nelle giornate più frenetiche esistono rallentamenti forzati: basta attendere il proprio turno, concentrarsi sul Kindle che in fondo pesa solo duecento grammi, bisbigliare sorry se la propria giacca, accomodata su un braccio, sfiora il fianco della signora davanti e accettare la lentezza, elemento inevitabile. Come la pioggia, o la morte