La filosofia sulle scale

Creato il 11 febbraio 2015 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Il professor Greco sale le scale con due buste della spesa, rimpiangendo ad ogni scalino il momento in cui ha comprato quelle tre stanze in cima alla torre di mattoni. Ma tant’è: affascinato dalla veduta sui tetti grigi e inconsapevole dell’effetto crudele della vecchiaia sulle articolazioni, trent’anni prima non aveva immaginato che quelle scale sarebbero diventate la sua dannazione.

A volte, solo all’idea delle perigliosa discesa e dell’infinita risalita, resta in casa, rinunciando al pane fresco, all’orzo macinato, ma oggi è fuori discussione: Plotina, la gatta nera che occupa con fare da padrona buona parte delle stanze in questione, miagola arrabbiata, e in casa non c’è proprio nulla da mangiare. Né per lei né per se stesso.

Già alla prima rampa si ferma a prender fiato: Maria, la portiera, sta lavando a mano gli scalini di pietra opaca con uno straccio che persino per essere quel che è fa compassione. Il professore sente un moto di solidarietà per quel pezzo di tela di colore indefinibile, strappato e sfilacciato, che combatte una guerra inutile contro centinaia di scarpe nonostante abbia da tempo superato l’età pensionabile. Non è poi così diverso l’essere umano –riflette Greco- sfruttato dalla società fino allo sbrindellamento, usurato e strizzato, nell’attesa che si apra il Grande Cassonetto dell’universale Nulla ad accogliere quel poco che resta di lui.

Uhm…riflessione degna di Schopenhauer –ridacchia il professore. E scansando le chiazze umide attacca la seconda rampa.

Dalla finestrella sulle scale si fa largo il primo spicchio di giardino, campane di pallide dature e ortensie ferrigne, odore di terra bagnata e foglie nel rigagnolo e… qualcuno sta cucinando ceci, sì. Il professor Greco immagina il lento borbottare della pentola e il filo di vapore che appanna i vetri della cucina. La religione ha creato delle meravigliose abitudini in cucina un po’ ovunque – si racconta, ripensando alla squisita cucina del Ghetto, al couscous sugoso che ha assaggiato in un piccolo ristorante, e soprattutto al baccalà. I filetti incappottati nella pastella dorata, il brodetto vermiglio, l’insalata candida punteggiata di capperi cicciotti:  il professore deglutisce a vuoto, una tormenta alla bocca dello stomaco.

Mentre rimugina se tornare indietro e chiedere al pizzicarolo se è rimasto qualche pezzetto di pesce già ammollato, incontra la signora Marchesi del secondo piano; posa le buste per terra per togliersi il cappello, ma la signora parla al telefono e sembra non vederlo. Quando oramai sul pianerottolo è rimasta soltanto la scia persistente del suo profumo, arriva da sotto la sua voce:

– Professore, ma non si vergogna a tener prigioniera quella bestia? La liberi, che non fa che miagolare!

Il professore Greco nel frattempo ha rimesso il cappello e ripreso le buste e poiché ha attaccato un’altra rampa non ha il fiato per rispondere. Cosa che non farebbe comunque, perché gli sembra oltremisura ineducato usare un tono di voce che superi quello di una normale conversazione tra persone civili.

I suoi colleghi del Mamiani, d’altronde, lo avevano sempre preso in giro per quella sua pretesa di non alzare mai la voce, neanche davanti alla classe più indisciplinata. Ma quando l’allora giovane Greco entrava in aula gli studenti si azzittivano man mano che iniziava a parlare –pianissimo, pianissimo- e la lezione di filosofia finiva per svolgersi in un silenzio assorto. Tanto che agli inizi il bidello malfidato si affacciava in aula per controllare che i delinquenti –tutti estremisti e terroristi, professo’, tutti!- non avessero accoppato il pacato insegnante.

Al pianerottolo del terzo piano, il professore si ferma nuovamente, e pensa di sedersi su uno scalino: le ginocchia gli tremano, le dita che reggono la busta sono gonfie e rosse e il cuore (o quell’usurato brandello che ne resta, pensa) pare essersi trasferito tra le tempie sguarnite. Ma appena posate le buste sente provenire dalla porta della coppia che ha appena traslocato un urlo e uno schianto seguiti da una serie di parole irripetibili. Non che io sia un puritano –precisa Greco a se stesso- ma tutto quest’imprecare per un coccio rotto mi pare sproporzionato. Una dose di sana atarassia applicata alla vita di tutti i giorni non farebbe male a nessuno . Ad ogni buon conto, temendo di esser preso per qualcuno che origlia -e non volendo usurpare tale primato alla portiera- raccoglie in fretta le buste e affronta l’ultimo tratto di scale.


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