La fine di qualcosa

Da Cristiano @sosmammo

Non ci sono sfumature o gradazioni: la fine non è altro che un colpo di pistola sparato a bruciapelo contro il cuore. Non è nemmeno il colore del cielo che banalmente si spegne e neppure il semicerchio che il fiotto di sangue arterioso riesce inutilmente a compiere, soltanto perché ormai aveva già iniziato il suo viaggio, povero illuso che sperava di fare un giro intero anche questa volta. La fine riguarda anzitutto l'udito o, meglio, la sua improvvisa assenza. Certamente più alla portata dell'uomo, il suono, invece che la luce, scompare perché ha bisogno di una sua elaborazione. "Cosa è stato?": non riesce neanche a chiederselo chi è stato colpito dallo sparo, perché non ha tempo per farlo e perché è l'eco delle cose, più che le cose in sé, ciò che ci fa comprendere i fatti. Un'interpretazione necessariamente a posteriori, ma quando esiste una fine non esiste per definizione una posteriorità, ancora di più se tardiva.
La fine non è altro che fine e l'uomo giace in terra, su un marciapiedi di una città, gli occhi aperti anche se non possono più vedere, le cartilagini delle orecchie sono subito gelate, le braccia e le mani spalancate che nulla possono più abbracciare. Un abbraccio non è altro che la ricerca di calore, ma un corpo che non si muove non ha più volontà, né bisogni o urgenze. Non desidera un brodo caldo, né tanto meno è in cerca di un conforto per il cuore.
Disteso, ormai molto più inutile di un ombrello rotto sotto a un diluvio, inutile come una speranza che nessun altro conosce, come il rimpianto per la vita che non può tornare, come qualsiasi illusione che ne ha contornato l'esistenza. Ciò che rimane è l'interpretazione necessariamente limitata degli altri, di quelli che raccolgono il corpo e non riescono a trattenere i commenti e compiono una ricostruzione approssimativa dei fatti; molto più erronea è di solito la loro esegesi, basata su qualche foglio di carta rinvenuto nella giacca del morto, sull'ultimo numero chiamato dal suo telefonino, dalla prima fotografia che spunta dal portafogli, da uno stupido dettaglio a caso, come può essere "una-camicia-non-infilata-nei-pantaloni" o "una-scarpa-slacciata-al-momento-del-delitto". Prove schiaccianti di un regolamento di conti.
Dopo la fine, ciò che rimane è un corpo messo a disposizione delle idee dei passanti, dei loro ragionamenti tanto più superflui dal momento che non possono ricostruire un bel niente, prima di tutto la vita. Il corpo è diventato un'interpretazione, un'idea assolutamente mai obiettiva, ma che appartiene solo a chi la pensa. Che bella varietà di opinioni, mio dio. Non c'è fine peggiore di questa: diventare un discorso, un'astrazione, quando soltanto pochi secondi prima quella cosa stesa in terra era un essere vivente. Di certo materia viva e che respirava, se fosse anche spirito non lo so proprio.
Come per tutte le cose della vita, anche la fine fa parte delle coincidenze che ci accadono. Il corpo si è trovato sulla traiettoria del proiettile, se fosse stato un poco più in là nulla di nuovo gli sarebbe accaduto, almeno per quel giorno, ché prima o poi la fine arriva per tutti, per oggi è andata bene, ma domani di certo le cose andranno in modo del tutto opposto. Una coincidenza, proprio come quando ci si incontra: potevi essere tu, poteva essere un altro al tuo posto, poteva esserci un'altra o cento altre invece di te, ma solo nei tuoi occhi color di cielo invernale si sono specchiati i miei, soltanto nei tuoi cieli ho posato le nuvole che fino a ieri mi offuscavano lo sguardo. Funzionano esattamente allo stesso modo le coincidenze che riguardano l'amore e la fine di qualcosa, o di qualcuno.
Ma c'è una cosa strana che concerne soltanto gli incontri, mentre non interessa ciò che abbiamo detto finora riguardo la fine. Un'anomalia: è il contrattempo. C'è sempre chi arriva prima e chi dopo, chi troppo presto e chi troppo tardi, a volte chi arriva prima può aspettare un poco, sempre che la cosa gli interessi e se non ha problemi a farlo, se non va di fretta, ma questa eventualità è davvero cosa rara, con tutte le cose che abbiamo da fare: metterci ad aspettare un altro, soprattutto se a un certo punto iniziamo a pensare che potrebbe non arrivare, che idea balorda, eppure è già nella testa.
Non riguarda la fine, dicevo, la questione del contrattempo, perché esso non è altro che un accessorio, se la fine è già intervenuta. Se è già scritta e se la sentenza ormai emessa è, per così dire, inappellabile. Diciamo pure che spesso il contrattempo non è altro che un pretesto, un'occasione, un accidente inutile, così come lo sono i commenti della gente e le astrazioni in generale. Se la fine è presente, se ne sta lì distesa per terra come un corpo immobile, se mai ci fosse un cervello fra i presenti in grado di immaginare il contrattempo, la sua idea, quel barlume improvviso e che affiora ogni tanto senza avvertire, sarebbe in ogni caso del tutto vano e fuori luogo.
Proprio come un 'contrattempo anacronistico', ma guarda che razza di frase ho tirato fuori, dev'essere un'iperbole oppure una nuova figura retorica a metà fra il pleonasmo e l'ossimoro, di certo né l'uno né l'altro soltanto.

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