Quando uscì, nel 1979, il primo capitolo della saga di Mad Max (inspiegabilmente distribuito in Italia col titolo di Interceptor), il filone cinematografico della fantascienza post-apocalittica era pressoché inesplorato. Le inquietudini sociali che attraversavano gli anni settanta, si erano tradotte nella nascita dell’eco-horror e, nella migliore delle ipotesi, nell’inarrivabile 2022: I sopravvissuti. Per ridefinire i confini del genere bisognava aspettare un misconosciuto esordiente australiano come George Miller, che chiuse il decennio ed aprì quello successivo inventandosi di sana pianta un mondo distopico dove la società, collassata sotto i colpi dei bombardamenti nucleari, regredisce fino a piombare nel medioevo più scuro. A metà strada tra il western crepuscolare e i classici greci, il secondo capitolo dell’iniziale trilogia poneva definitivamente le basi per la costruzione di un genere così come lo conosciamo oggi; poi arrivò il terzo atto ed un non-finale che lasciava aperte diverse strade. Invece, negli ultimi trent’anni, Miller ha preferito dedicarsi a tutt’altro, passando dai drammoni strappalacrime ai maialini coraggiosi, fino al musical di animazione coi pinguini che aveva ormai convinto tutti che si fosse definitivamente rincoglionito. In realtà il Nostro covava da oltre quindici anni il progetto di riportare sullo schermo l’eroe meno eroe della storia del cinema, quel Max Rockatansky che finiva per trovarsi in situazioni che non lo riguardavano e che non aveva nessuna voglia di risolvere, se non per mero tornaconto personale. Assorbiti e metabolizzati tutti i figli più o meno legittimi di Mad Max – da Kenshiro alla sottovalutata serie di Joe Dever, Guerrieri della strada, passando per la quasi totalità della produzione anni ottanta di John Carpenter – Miller ha finalmente deciso di tornare nel deserto, stavolta quello namibiano e non più quello australiano, di sostituire l’ormai attempato Mel Gibson con Tom Hardy e di impartire una lezione di cinema alle nuove leve.
Fury Road non è un reboot della serie e nemmeno un remake di uno dei primi tre film. Non è neanche un vero e proprio sequel, perché non c’è nessun riferimento esplicito alle vicende della trilogia iniziale; sappiamo solo che Max è un uomo perennemente in fuga, tormentato dai sensi di colpa per non aver saputo difendere la propria famiglia. Punto. Zero concessioni al fan service, nessuna quarta parete abbattuta, praticamente inesistenti i richiami ai personaggi degli altri film. Eppure a Miller bastano venti minuti di film e tre righe di dialogo per rendere perfettamente chiara la vicenda e assolutamente coerente la costruzione di un mondo nel quale l’acqua e la benzina sono gli unici beni di valore e l’umanità è ridotta ad uno stato primitivo, frammentata in piccoli clan in costante guerra per la difesa di un territorio inospitale. La trama, lineare nel suo sviluppo, ruota intorno al tradimento dell’imperatrice Furiosa (Charlize Theron), che rapisce le mogli del tiranno Immortan Joe per condurle verso le Terre Verdi e del conseguente inseguimento, da parte dell’esercito dei Figli della Guerra, per riportare indietro le ragazze. Anche in questo caso, Max, che viene utilizzato come “sacca di sangue” da uno dei Figli della Guerra, finisce suo malgrado in mezzo alla vicenda e si unisce alle fuggitive, non perché spinto da chissà quale nobile ideale, ma soltanto per salvare se stesso. La messa in scena di questa Iliade post-moderna è una gioia per i cinque sensi dello spettatore e gli inseguimenti che chiudevano i due capitoli precedenti, qui vengono portati al parossismo in un trionfo di virtuosismi della macchina da presa, di scene acrobatiche da lasciare senza fiato e di veicoli incredibilmente vivi che fanno da contraltare al pallido anonimato dei Figli della Guerra, tutti uguali e mossi soltanto dalla cieca obbedienza al padrone. Sarebbe comunque riduttivo descrivere Fury Road come un riuscito esercizio di stile e, se un regista riesce a rendere credibile e funzionale anche l’inserimento di un chitarrista conciato come uno degli Slipknot, che sputa fuoco dalla chitarra mentre se ne sta sopra un camion fatto di amplificatori, allora significa che siamo di fronte ad un meccanismo talmente perfetto che, al termine delle due ore, l’unica reazione plausibile è quella di abbracciare chiunque vi stia intorno come se vi trovaste in curva e la vostra squadra del cuore avesse segnato il gol vittoria al novantesimo.