La flessibilità del lavoro spiegata da Thomas More.
Creato il 19 maggio 2015 da Lostilelibero
“Il lavoro deve essere flessibile”.
Questo sembra essere diventato il nuovo mantra che viene recitato insieme dalle
nuove suorine progressiste di tutti gli schieramenti e da tutte le categorie
produttive. Nell’epoca post moderna anche il lavoro si fa finalmente, per usare
un’espressione cara a Bauman, “liquido”. Il posto fisso, la cui unica virtù era
legata quasi esclusivamente alla sicurezza del reddito fisso, non esiste quasi più, e andrà sempre più scomparendo, checché ne dicano proprio quegli stregoni
che vorrebbero lucrare sulla crescente precarizzazione.
A ben vedere, infatti, il
mercato del lavoro deve oggi essere flessibile, mobile, dinamico, per venire
anzitutto incontro alle esigenze di chi vi si approvvigiona; per mettere in
condizione i datori di lavoro di dare più lavoro, anche se poi quel “più
lavoro” si traduce spesso esclusivamente con un lavoro instabile, dilatato su
una massa di forza lavoro più amplia e spesso volutamente sottopagata: stagisti
senza fine, malati di corsi, eterni precari, neolaureati, strumenti necessari per oleare la
logica del profitto imprenditoriale del “massimizzare gli utili tagliando gli
sprechi” (mi ha sempre fatto specie che esista un mercato del lavoro, degli
uomini, così come ne può esistere uno delle vacche o degli ovini. Nel
progredito capitalismo odierno, dove tutto è libero ma oggettivato a quantità,
anche il lavoro diventa così una merce di scambio).
Eppure, questa
riqualificazione professionale senza fine, questo continuo cambiare pelle,
dicono i giuslavoristi di affermata fama, dovrebbe determinare anche un
costante miglioramento delle conoscenze del lavoratore e così pure una
crescente possibilità di trovare sempre nuovi impieghi, riciclandosi di volta
in volta. In realtà, dacché il lavoratore è oggi solo una merce al pari delle
altre, una risorsa alla mercé degli eventi economici, la flessibilità del
mercato del lavoro serve più agli scrupoli e agl’interessi dei sistema che
all’effettiva crescita di competenze e di abilità professionali del lavoratore
stesso. La flessibilità, infatti, se la si guarda da vicino negli effetti che
sta provocando su una società economica che si regge esclusivamente sulla
velocità dei consumi, serve anzitutto i desiderata economici di una sempre più
miope ed inetta classe imprenditoriale (adorata però dal lavoratore-strumento
che soffre di vertigini: dal momento che mi dai da lavorare, fai di me ciò che
vuoi. L’”uomo operoso”, “fatto di lavoro”, diventa un modello da seguire: chi
mi dà da lavorare ha ragione a prescindere, ché mi sostenta non facendomi
preoccupare di vivere!).
Eppure, quella stessa elasticità
lavorativa, se guardata da una prospettiva più umana, può forse anche avere
qualche risvolto positivo. Thomas More, ad esempio, tracciò agli albori del
‘500 una strada diversa rispetto al precariato fisiologico, genuflesso ai dogmi
mercantili, che viviamo nella democratica contemporaneità. Nella società
ideale disegnata da More, gli abitanti di Utopia dovevano provare il maggior
numero di mestieri possibili, sopra tutti l’agricoltura (per l’uomo premoderno
l’agricoltura aveva un’importanza vitale. Come segnalato anche dai fisiocrati
francesi, essa era l’autentica ricchezza per l’essere umano, energia
indispensabile per potersi adoperare poi in qualsiasi altra attività volitiva.
Oggi, invece, offuscati dal progresso incalzante, il settore primario vale solo
il 2% del Pil italiano). Anche secondo Moore era necessario cambiare lavoro, almeno
per un breve iniziale periodo di prova. La necessità di questa precarietà ante-litteram non era però esclusivamente legata
all’asservimento umano nei confronti del sistema economico di produzione, bensì
alla crescita e al benessere dell’uomo stesso: provo tanti lavori e poi posso
capire la fatica del lavoro dei consimili, così magari la smetterò di pensare
che il mio lavoro sia il peggiore e che gli altri non facciano niente.
Ad
Utopia la flessibilità del lavoro era parte integrante di un percorso
di autoconsapevolezza civica, persino di maturazione esistenziale.
Viceversa oggi è il mercato a selezionare
le risorse umane, a spostarle come ingranaggi usa e getta, muovendo gli uomini
senza sosta da una parte all’altra, nell’interesse di un crescente ed infinito
profitto economico. Abbiamo così eretto il lavoro a valore fondamentale, ma lo abbiamo fatto sbadatamente, proprio a scapito degli stessi lavoratori (per More invece non era un valore
così centrale nella vita degli uomini, tant’è vero che il fine ultimo era
raggiungere l’obiettivo del maggior tempo libero).
Oggi si mira quindi a lavorare
sempre di più, quasi che questo surplus di lavoro “straordinario” conferisca
all’uomo persino la patente di buon cittadino, la medaglia di “utilità” all’interno di
una società irragionevole, che vuole lavorare senza poter però garantire quel lavoro. A dirla tutta, non è nemmeno così chiaro quale sia oggi lo scopo del lavoro, dato che non abbiamo bisogno della maggior parte degli oggetti che
produciamo e gl’impiegati nell’agricoltura, quelli che danno da mangiare alla
comunità, fosse anche quella allargata globale, sono una minima parte della popolazione
attiva.
Non sappiamo più a chi serva lavorare, ma almeno oggi sembra non servire al benessere dell’uomo
(almeno non a quegli individui che, privati da quell'ennesimo riempitivo del vuoto, non
saprebbero come passare il loro tempo).