La forma di ogni pezzo

Creato il 05 agosto 2014 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

A volerla proprio descrivere, Tommasina era una donna secca. Secca e sola. Non che la cosa interessasse a qualcuno. Era sola da una vita, e non le sembrava una cosa importante. Non conosceva neppure la sua data di nascita: era stata lasciata davanti alla porta di un convento in una gelida alba di novembre, la guerra era appena finita e, come se non bastassero gli altri guai, aveva seminato tra le giovani donne del paese questo tipo di miserie.

Di rado Tommasina aveva pensato a sua madre, e se quell’idea prendeva talvolta forma nella sua mente, in maniera interrogativa, assumeva le fattezze baffute di suor Concepita, che non era propriamente un buon ricordo. Dell’orfanotrofio di Santa Brigida dove era cresciuta, ricordava bene il lavoro pesante, i geloni, le ore di preghiera, le sale bianche con l’intonaco che si sbriciolava per l’umidità. E, sempre, la suora pelosa che le aveva insegnato a furia di rimbrotti e schiaffi ad essere una serva di casa.

Gli anni erano scivolati in fretta, lavorando per una padrona, poi per un’altra, senza lasciar dietro di sé tracce né rimpianti, come se a portare le pattine di lana fosse la sua stessa esistenza. Pur sapendo che il mare era a pochi chilometri, non si era mai mossa dalla città, angosciata dal rumore del tram e dalla folla; non ricordava di aver mai desiderato la compagnia di un uomo, né gli uomini l’avevano mai cercata, neppure nel breve periodo in cui la giovane età aveva donato un accenno di freschezza ai suoi tratti smorti.

Quando l’anziana donna che aveva assistito fino alla fine le aveva lasciato la casa in cui viveva, Tommasina, sorpresa e frastornata, era rimasta a girare nelle stanze ingombre senza saper cosa fare di se stessa. Forse per questo motivo, all’età di sessantanove anni (giorno più, giorno meno) aveva iniziato a pensare. Forse per questo motivo, ma soprattutto perché, mettendo ordine tra i ricordi della vecchia aveva trovato una mezza dozzina di scatole di puzzle (da dove venivano? perché erano lì, nel fondo dell’armadio?). Dopo averle girate e rigirate, annusate e riguardate, prese e posate, aveva capito come funzionavano: dalle scatole si riversavano un odore asciutto di vecchia carta e un fruscio sommesso che la pacavano, dando la stura a pensieri che sembravano tutti nuovi.

Il rumore dello scaldabagno che gorgogliava, delle ciabatte strisciate sul pavimento, l’odore freddo del caffè d’orzo le facevano compagnia. Cercava prima i bordi piatti, che dovevano formare la cornice: creava poi tutto intorno al tavolo dei mucchietti secondo il colore, secondo le forme. Con un cartoncino stretto fra le dita secche, rifletteva a lungo osservando il disegno sul coperchio, poi provava una, due volte, non di più. Se non riusciva a trovare una collocazione, passava ad un altro pezzetto.

Mentre il disegno avanzava, di pari passo Tommasina ricostruiva frammenti sparsi della sua vita, procedendo a ritroso, suddividendoli in periodi. Uno particolarmente fastidioso da collocare era quello in cui la “signora” di turno l’aveva accusata di aver rubato un anello; ma dopo qualche esitazione andò dritto al suo posto quando ricordò che il gioiello era stato ritrovato sotto la poltroncina della camera da letto. Mentre sistemava uno dopo l’altro dei pezzetti azzurri a formare un cielo, scivolò fuori la volta in cui aveva riso come una sciocca quando sul terrazzo la gonna grigia di suor Concepita era stata sollevata dalla tramontana. Stendevano il bucato sul terrazzo del convento, ed era un’azzurra giornata di marzo, fredda come può essere quando il sole è dietro l’angolo, ma ancora non vuol farsi sentire. Tommasina rivide le gambe pelose, le lenzuola grigiastre, riconobbe la ragazzina dalle trecce color topo che aveva dormito nel letto accanto al suo per alcuni anni, senza riuscire a ricordarne il nome. Quella risata era costata ad entrambe diverse bacchettate sulle nocche già spaccate dai geloni.

Così, sistemando frammenti di cartone, tornò indietro, indietro fin dove aveva memoria, misurando i passi sul sentiero semplice, senza grandi sorprese, che era tutta la sua esistenza. Almeno fino al momento in cui era arrivata all’orfanotrofio. Quel momento che le mancava, l’ultimo pezzo del suo rompicapo, iniziò a farsi sentire, a tormentarla come mai prima. Ma con chi parlarne? L’orfanotrofio non esisteva pù da un pezzo, le monache dovevano essere tutte morte.

Un giorno, esasperata, riprese la scatola dei biscotti in cui teneva le sue poche cose: una lettera di raccomandazione della madre superiora alla sua prima padrona (una giovane sposa indecisa che l’aveva maltrattata in ogni modo); una sorta di medaglia di stoffa a forma di cuore con una figurina sacra ormai irriconoscibile; un certificato che attestava la sanità e l’attitudine al lavoro, una cartolina che aveva comprato senza mai spedire. Poiché le carte non potevano dirle nulla -erano pezzi di facile collocazione, portavano date e luoghi e firme- prese la rozza collana e la osservò a lungo. Il laccio, piatto e chiaro, portava tracce di sudore e di vecchia sporcizia. Il cuore rossastro era cucito a doppio con grossi punti diseguali, e dalla punta pendevano ancora poche perline incolori. La figurina di carta ritagliata e fermata con altri punti di cucito non aveva quasi forma. Tommasina lo infilò al collo magro riuscendo dopo qualche tentativo ad annodarlo. Mentre rifletteva su come collocare altri pezzi del puzzle, senza pensarci portò la mano destra a cercare il ciondolo, e iniziò a strofinarlo piano fra le dita, sentendone la ruvidità, lo spessore irregolare : non aveva mai capito a chi appartenesse quell’oggetto, forse era della balia che l’aveva allattata (perché c’era stata una balia, lo sapeva, i neonati esposti erano affidati a baliatico prima di tornare all’orfanotrofio), di una delle suore? Non riusciva però a far riaffiorare alla memoria un gesto d’affetto da parte di quelle che l’avevano fatta crescere per dovere. Ricordava invece di averlo portato a lungo, riponendolo solo quando la sua prima “signora” l’aveva obbligata, dicendo che non voleva mendicanti in casa sua.

Quella sera andò a letto senza sfilare il laccio, benché ci avesse pensato, e si svegliò in piena notte per scoprire che lo teneva stretto in mano. Tentò invano di riprender sonno,mentre i pensieri si ammucchiavano e venivano scartati una, due, tre volte. Alla fine Tommasina saltò giù dal letto sbuffando, infilando pantofole e vestaglia in fretta, al buio. Accese la luce solo per cercare gli occhiali, la scatola del cucito, le forbicine. In cucina spostò in fretta i pezzi del grande puzzle che rappresentava una paesaggio di montagna, per liberare un po’ di spazio. Alcuni caddero, il verde si mischiò al marrone, non importava. Dalla stoffa scucita scivolarono sul tavolo sottili particelle di carta che portavano a malapena traccia di un inchiostro, di una grafia incerta. Sotto le dita impazienti, il piccolo rompicapo si ricostituì in alcuni minuti.

Lascio Maria Luce, nata il 30 giugno 1945 alle ore 9 pomeridiane. Porta il segno di una medaglia della Madonna dolorata con laccio bianco, volendone sapere riconoscenza a tempo opportuno.

Non si agitò, non soffrì per quel che poteva essere e le era stato rifiutato, poiché era stata Maria Luce per troppo poco tempo e non riusciva ad immaginare una vita differente. Se anche sua madre l’avesse cercata, pentita -chissà- di averla lasciata al freddo, ad imparare a fare la serva, beh…non l’avrebbe mai riconosciuta, mai. Non poteva andare diversamente: ogni pezzo aveva una forma sua e poteva incastrarsi solo in quel punto preciso, e non altrove.

Riprese la scatola del cucito, chiudendo punto dopo punto nella stoffa consumata i frammenti di carta; quando ebbe finito, ripose il cuore nella scatola e tornò al suo puzzle.


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