Dal 12 marzo 2016 le Scuderie del Quirinale prendono il volo e si posano a Parma: si fanno quinta scenografica privilegiata per additare al visitatore, a quello furente, e veloce, a quello comodo, e riflessivo, lo spaccato privilegiato di una città, della sua corte, delle sue delizie.
Sottotitolare la mostra "Arte a Parma nel Cinquecento" significa riferirsi nientemeno che ad una capitale d'Italia. Ché, come Roma, Napoli, Firenze, Venezia, una miriade di altri centri politici, prima ancora che culturali e artistici, popolavano l'Italia centro-settentrionale nel Cinquecento, tra i quali Parma si pone come vero e proprio baricentro di interessi sovranazionali, che daranno alla città dei Farnese un'eco spropositata, nel Cinquecento e per i secoli successivi. La mostra è su Parma. E Roma, capitale impacciata, storicamente prima e nostalgicamente grande, fa una riverenza, dall'alto del suo Quirinale, di fronte al pregio di una così piccola città, che pure si pone alla pari (o quasi) con la città eterna.
Si venga a noi: Correggio e Parmigianino. L'uno, nato forse nel 1489, cambia il nome Antonio Allegri con quello della cittadina della provincia reggiana, Correggio appunto: giunge a Parma all'apice della carriera, dopo essersi formato nel mantovano, ove colse con i propri occhi le meraviglie del Mantegna; il secondo, Francesco Mazzola, evoca nel nome il famosissimo formaggio che, unico in Francia, non cambia significante e rimane, inequivocabilmente, parmesan: classe 1503, nasce già grande, lavora in Parma, Bologna, Roma, per finire i suoi giorni in Casalmaggiore, nel cremonese, a 37 anni.
I due piani delle Scuderie appaiono, più di ogni altro allestimento, non già divisi in sale, ma unici, giganteschi, ambienti: da un fondo blu che ammanta, notturno, in ombra religiosa di chiesa al crepuscolo, le tele, i disegni, le tavole sfavillano quali fontane zampillanti di luce. Pare un giardino notturno, visitato da figure mascherate che si mostrano, improvvise, tra i viali e le siepi invisibili che la notte inghiotte. E se alla prima sala, tra grandiosi drappi, pendono come due giganti Santa Cecilia e David dell'ultimo Parmigianino, il percorso si implementa viepiù che si procede, si scompone, si intensifica, si spiega, e dalla giovinezza si passa alla maturità, dove il Redentore in gloria con angeli del Correggio, dritto dai Vaticani, fronteggia l'imponente San Rocco di Parmigianino, con levriero modernissimo al seguito, fino al Noli me tangere, dal Prado, alla cui luce che conquide l'occhio umano sprofonda, nel verde del paesaggio, nella flessione della linea delle figure, quintessenza dell'arte di Correggio.
Il primo piano si completa con i soggetti mitologici, rari e, per questo, mozzafiato: Circella, dagli Uffizi, e Saturno e Filira per Parmigianino; Venere con Mercurio e Cupido dalla National Gallery e Danae, dalla Galleria Borghese, per Correggio. E qui, davvero, le forme sensualissime mettono di fronte al prodigio del genio: l'erotismo della Danae dialoga con un Cupido accovacciato, nell'altra tela, ai piedi di Venere distesa, movenze e forme, queste, che ci fanno intendere cosa sia il contrappunto prima ancora di udire Johann Sebastian Bach.
Al primo piano, vince Correggio. Con il secondo piano, Parmigianino si gioca le sue carte migliori. La linea curva che riga quasi ogni opera del Correggio, artista davvero rinascimentale, ha sviluppato fin qui un complesso di forme così sorvegliate e composte che quella linea rinserra e acquieta. Ogni piccolo movimento che vorrebbe scomporre questa quiete è, da quella linea, bloccato. È la forma platonica che parla, in Correggio.
Questa forma mostrataci nella sua essenza più pura lascia spazio, in Parmigianino, a tutt'altro effetto: i suoi quadri paiono attraversare i secoli, correre lungo la linea degli anni, a mostrare luoghi e storie cui mai, al guardarli, avremmo pensato. Ciò che Adorno dice del manierismo mahleriano è verissimo per Parmigianino: "è la cicatrice lasciata dall'espressione in un linguaggio che già non è più in grado di realizzare un'espressione". Non forme, come Correggio. Ma grazia, impalpabile ed enigmatica.
Prima stanza (Sala 6, nel percorso museale), Schiava Turca, copertina della mostra: se si guardasse per ore, si desidererebbe guardarla ancor di più; poi, tra l'infilata ancora avvolta nelle tenebre, si distaccano opere di Giorgio Gandini del Grano, Girolamo Mazzola Bedoli, Michelangelo Anselmi, che ci dimostrano l'assunto da cui siamo partiti: non è che Parma è Parma perché ha avuto due artisti del calibro di Correggio e Parmigianino; Parma è tale in quanto capitale. E da capitale, ospita una nutritissima schiera di eccezionali artisti.
Al termine dell'infilata, lei, l'Antea. Prima, una splendida sala, forse la più suggestiva, piena dei disegni degli artisti, ci mostra come ciò che era funzionale per Correggio, e preparatorio di opere diverse, diviene mezzo espressivo in sé per Parmigianino, e il tratto della matita, sorvegliatissimo, lascia talora spazio a linee così sciolte da sembrare, esse stesse, già novecentesche.
E, alla fine, il salto al cuore: prima, la sala dei ritratti, con la quale salutiamo Correggio; poi, irradiati dalla enigmatica figura di Antea, dal museo napoletano di Capodimonte, guardiamo la Pallade Atena e la Lucrezia, tornite come statue di marmo, tutte del Parmigianino. E, insieme, l'allegoria di Parma che abbraccia Alessandro III Farnese, prosopopea di una città che si è fatta, davvero, capitale.
Dal buio si ritorna alla luce, immensa. Ci avvolge Roma, che dall'alto del Quirinale, sotto un tersissimo cielo di marzo, appare incapace di produrre bruttura.
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