Se poi ci spostiamo in televisione la situazione peggiora notevolmente. Le trasmissioni di approfondimento politico non affrontano mai il problema come questione strutturale, ma mettono intorno a un tavolo le forze politiche soltanto davanti a una violenza “straordinaria” (caso Reggiani) determinando così un’attenzione esclusiva e mai di sistema. Il più delle volte vengono chiamate a discuterne solo le donne (meglio ancora se in occasione dell’8 marzo) come se fosse un problema che investe solo loro. Si mettono insieme donne di aree politico-culturali diverse: uno schema che serve a sostenere che, davanti alla violenza sulle donne, la battaglia è comune e non si fanno differenze fra destra e sinistra. Come se affermare che la famiglia è il luogo in cui avvengono maggiormente le violenze o invece che la violenza si consuma per strada e per mano migrante sia la stessa cosa. Come se questo punto di partenza sia irrilevante nella costruzione di un’azione politica. Come se per sconfiggere la violenza non sia importante fare un’analisi corretta. Un’ipocrisia politica al femminile che in questi anni ci ha fatto fare passi indietro e non in avanti. Peggio dell’approfondimento politico, ci sono i programmi di attualità caratterizzati dalla presenza di “opinionisti”. È lì che si consuma il male assoluto: la violenza diventa una soap opera durante la quale è possibile tirare fuori tutta l’ignoranza e la barbarie insita nella pancia del Paese. “Nessuno ha il diritto di togliere la vita ad un essere umano”, e fin qui ci siamo. Poi però si va a scavare nell’esistenza di lei, si definisce lui “un ragazzo che l’amava troppo”. E si va avanti rivolgendo al pubblico da casa domande del tipo: “Uccidereste per gelosia?”. Tutto affrontato con una leggerezza sconcertante come se non fossimo davanti a una morte reale, ma sempre dentro una fiction.
Se poi ci spostiamo in televisione la situazione peggiora notevolmente. Le trasmissioni di approfondimento politico non affrontano mai il problema come questione strutturale, ma mettono intorno a un tavolo le forze politiche soltanto davanti a una violenza “straordinaria” (caso Reggiani) determinando così un’attenzione esclusiva e mai di sistema. Il più delle volte vengono chiamate a discuterne solo le donne (meglio ancora se in occasione dell’8 marzo) come se fosse un problema che investe solo loro. Si mettono insieme donne di aree politico-culturali diverse: uno schema che serve a sostenere che, davanti alla violenza sulle donne, la battaglia è comune e non si fanno differenze fra destra e sinistra. Come se affermare che la famiglia è il luogo in cui avvengono maggiormente le violenze o invece che la violenza si consuma per strada e per mano migrante sia la stessa cosa. Come se questo punto di partenza sia irrilevante nella costruzione di un’azione politica. Come se per sconfiggere la violenza non sia importante fare un’analisi corretta. Un’ipocrisia politica al femminile che in questi anni ci ha fatto fare passi indietro e non in avanti. Peggio dell’approfondimento politico, ci sono i programmi di attualità caratterizzati dalla presenza di “opinionisti”. È lì che si consuma il male assoluto: la violenza diventa una soap opera durante la quale è possibile tirare fuori tutta l’ignoranza e la barbarie insita nella pancia del Paese. “Nessuno ha il diritto di togliere la vita ad un essere umano”, e fin qui ci siamo. Poi però si va a scavare nell’esistenza di lei, si definisce lui “un ragazzo che l’amava troppo”. E si va avanti rivolgendo al pubblico da casa domande del tipo: “Uccidereste per gelosia?”. Tutto affrontato con una leggerezza sconcertante come se non fossimo davanti a una morte reale, ma sempre dentro una fiction.
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