La fotografia, Ugo Foscolo e la corrispondenza degli amorosi sensi

Creato il 01 dicembre 2012 da Germogliare

Pina Bausch

Sofia mangiava sempre di gusto, l’importante era non doversi mettere lei ai fornelli. “Aiutooo! No! “ Gridava. Solo pasta al burro e come la faceva lei, nessuno. Cucinavo io. Oppure, fuori, quando una rosetta con mozzarella e prosciutto non era il caso, perché la pancia chiedeva di più, beh, allora, nelle pause per il pranzo ci divertivamo a fare le turiste in cerca di un locale tipico. Imprevedibilmente, accadeva che con la sua giovialità trascinante, coinvolgesse un autoctono in chiacchiere e faceva sì che questo ci invitasse a casa sua. Sofia era bella, aveva uno sguardo limpido, profondo, con il luccichio sulle pupille, occhioni neri incavati, le sopracciglia folte, scure e lucide; un sorriso con belle labbra carnose, sporgenti e disegnate bene bene;  la sicurezza di chi sa che può chiedere. I suoi capelli lunghi, lunghi e neri, ondulati, sono sempre stati un punto fondamentale del suo fascino. “La chioma al vento funziona sempre” … in un mondo di maschi.“Ah! Che tremori suscitavi, tu, Donna Sabina!” Il collo, le mani, manifestavano la sua energia. I suoi tendini in evidenza, vedevo, segnavano perfettamente il suo scheletro, esile e definito, flessuoso. Le vene gonfie mostravano lo scorrere del sangue. Un incredibile entusiasmo mi permeava nell’osservarla nel preciso momento, in cui la vedevo immobile e decisa a premere l’otturatore della macchina fotografica. Era molto sexy in quegli istanti.
“Ora!” Istante di silenzio e… Claaak! Lei mi descriveva la sensazione, confrontandola a come fosse uguale la sua percezione di fare l’amore, con l’azione che blocca l’immagine. Con l’Hasselblad era ancora meglio. “La lentezza dello scatto si prolunga e più è forte il rumore dell’otturatore”. La piacevolezza del corteggiamento, identificabile nella ricerca dell’inquadratura. Indagare lo spazio da catturare, come un animale che segue la sua preda. Impassibilmente, tutti i sensi si adoperano all’unisono per far proprio quel corpo (immagine concreta).
“Cerchi l’angolo giusto come a individuare il posto dove fare l’amore, scruti l’inquadratura dentro il pozzetto, come a cercare con le labbra il punto del corpo del tuo uomo, da baciare e poi… Claaak!!! L’immagine è tua. La penetrazione! L’immagine è in te, ti appartiene”. Restavo a bocca aperta. Incantata dalla sua descrizione così vera e dalla sua movenza. Condividevo, ma ci vuole esercizio per acquisire certe pratiche e imparare a godere di certe emozioni. La cosa mi affascinava. I ragionamenti della mia mente cominciavano allora a seguire nuove traiettorie, si aprivano ulteriori canali comunicativi, sconosciuti prima.
Con lei c’era la passione impressa nel lavoro commissionato, come in quello per una ricerca personale. Cultura era fare arte, arte era respirare, magiare, dormire, amare.
Accadeva. A volte. Assente! Scompariva la sua visibile animosità, viaggiava verso altri luoghi,

René Burri, Ombra di un Albero, 1963.

lasciando solo la forma del suo corpo al terreno, quando si ergeva con l’Hasselblad al collo, dinanzi alle sue ombre, giganti, rispetto a lei come un fuscello.  Da anni fotografa ombre, immobili, nette e decise. “Perché non ti sviluppi un tema? Comincia a lavorare a qualcosa di tuo” . Ascoltavo. “Innamorati di qualcosa e fai in modo che sia tua”.

Un pomeriggio di metà giugno, arriviamo in Basilicata, un paesaggio meravigliosamente silenzioso ma che urlava vita nelle forme, nella luce e nei colori. Le colline come dune dorate mirabilmente tondeggianti brillavano, ricoperte di grano da mietere o con striature di terra, lì dove il passaggio della mietitura era già avvenuta, covoni ridenti, tanti, a semina , visti da lontano. Il cielo celeste, pulito. Chilometri di strada tra quelle campagne, cercavamo quando potevamo di rallentare la corsa, per sentire l’odore dei campi e far sembrare un viaggio di lavoro una gita. Chilometri e chilometri di strada senza incontrare abitazioni e raramente incrociare una macchina, com’era lontana da lì Roma.

Il sole calava, si era lavorato tutto il giorno (non avevamo orari precisi), la struttura da fotografare aveva permesso di avere un buon risultato (era fotogenica), meno tempo del previsto, eravamo soddisfatte. Potevamo tenere per noi il chiarore del tardo pomeriggio, ottimo per lasciarci un margine di tempo per il lavoro di solo piacere. Alloggiavamo in un piccolo paese, da amici della committenza. Una meraviglia! Loro, la casa. Ci accolsero nella grande cucina a piano terra, immensa, con il camino in mattoni e il forno all’interno, tra profumi che sapevano di casa “…e chiamalo lavoro!”.
Arrivando, avvicinandoci in paese, avevo notato una stradina, ombrosa, ristretta dal rigonfiamento della crescita antica di cipressi giganti, questi si alzavano altissimi in cielo. Il verde buio degli alberi scuriva il chiarore del terriccio ocra del camminamento, lineare, più stretto dalla profondità di campo; come una passatoia con delle alte balaustre che guidavano il percorso, lo spessore e la chiusura dei rami conferivano ulteriormente al luogo un ché di sacrale, mistico, così l’odore dei cipressi. Davanti. Un piccolissimo cimitero all’apparenza abbandonato. Forse trascurato. Uno spiazzo grande, abbastanza solo da raggirarci con la macchina, con le mura di pietre e mattoni, un vecchio cancello di ferro (tipico di quell’architettura contadina) per metà aperto. Le tombe e i loculi corrosi dal tempo erano immersi in un incredibile profumo di selvagge rose rampicanti, il verde impetuoso, puntellato di piccoli boccioli rossi, rosa, bianchi. I rami degli arbusti si innalzavano al cielo e quelli delle rose e dei rovi si contorcevano in labirintici intrecci. Ecco!

Germogliare, Riflesso di Basilicata 1988

Il luogo dove aveva riposato la bella addormentata, custodiva quella pace e luce. Alcuni rami degli alberi fuori dal recinto ricadevano all’interno e tutti facevano da filtro ai raggi del sole, che solo tra vie contorte e spiragli sottili, riuscivano a entrare all’interno regalando un gioco di bagliori magici nati da prismi di smeraldo, rubino, ametista, zaffiro e sopra tutti un diamante. Non ricordo rumori, solo l’ordine del silenzio. Avevo deciso di cominciare da lì la mia ricerca personale: “La corrispondenza degli amorosi sensi”. Volevo fotografare luoghi di sepoltura e raccontare attraverso la fotografia, la pace della solitudine che vi è impressa in questi luoghi e dell’energia trasmessa da altre vite che hanno vissuto prima di noi. Relazionarsi a questi luoghi porta al ricordo, alla riflessione, anche quando la figura verso cui ci poniamo difronte non è mai stata in precedenza incrociata dai nostri occhi. E quanto, ancora tanto è, quando essa ha vissuto la nostra vita. Volevo parlare del rispetto che dobbiamo verso chi un’eredità ce l’ha lasciata. Qualsiasi. Un’eredità culturale, storica. E. Dedicare questo lavoro all’anima di chi ha vissuto una vita degna di essere vissuta, vera, escludendo giudizi. Il tarlo di quella lettura, che anni dopo ho ritrovato sottolineata ripetutamente a matita, su un libro della scuola media, finalmente aveva trovato l’uscita.

“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
(…)
e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
(…)
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
(…)
Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
(…)
(I Sepolcri. Ugo Foscolo)