Augurimo a tutti gli amici di DiVINando una buona Epifania con il racconto di Marinella Maltagliati “Per amore di una pancetta”, tra i testi del concorso letterario di Villa Petriolo “La gaia mensa”.
Marinella abita a Cernusco sul Naviglio (Milano).
“Piacentina di nascita, milanese di adozione. Laureata in Lingue e Letterature Straniere. Amo viaggiare. Scrivo con passione da sempre: filastrocche e racconti per gli alunni negli anni di insegnamento e le mie personali emozioni da quando sono pensionata. Dallo scorso anno partecipo ai concorsi letterari che mi sembrano interessanti. Ho avuto la gioia di ottenere il diploma d’onore per alcune mie poesie e l’inserimento in volumi antologici per altre. Un mio racconto sarà, invece, inserito in uno dei libri distribuiti presso il circuito di lettura Golden Book Hotels”.
Racconto “Per amore di una pancetta” di Marinella Maltagliati
Un odore dolciastro di mele imputridite e uva appassita, traccia di un inverno che ha ceduto il passo alla primavera, impregna le antiche pietre della cantina. Le dita di Armida giocano con lo spago che avvolge il suo tesoro, poi se lo stringe al petto come un neonato pronto per il Battesimo. Deve sbrigarsi, ci sono mille cose da fare prima della partenza.
«Tu vieni con me in quel maledetto appartamento, non posso rinunciare a tutto.»
«Ti prego, non mi portare via, da sempre il ciclo della nostra esistenza si è concluso qui dove è iniziato.»
La donna sente un brivido in fondo alla schiena, se le cose parlano, lo sconforto l’ha trascinata in un vicolo cieco. Rimasta sola, ha tentato di mandare avanti la fattoria, non ci è riuscita. Si è indebitata con la banca, alla fine sono intervenuti i figli che, dopo aver trovato un acquirente, le hanno affittato un monolocale in città. Il contratto stipulato prevede che deve cedere tutto così come si trova: i vecchi mobili di famiglia con il loro contenuto, gli animali, perfino le damigiane di vino e i salumi appesi in cantina. Perché non dovrebbe tenersi una pancetta, almeno una?
Seduta al sole sugli scalini dell’ingresso rievoca episodi riemersi da chissà quale anfratto della memoria, come la terribile infezione che l’aveva colpita a diciannove anni, la somministrazione di antibiotici al limite della tolleranza, i continui conati di vomito e poi il primo cibo mangiato con gusto: un panino con la pancetta. Le deve un favore, ma da sola non riuscirebbe a gustarla fino in fondo, non le resta che organizzare un pranzo. Quanto vorrebbe invitare qualcuno ancora in grado di provare stupore per i prodotti della sua terra! Ma chi? Ha un’intuizione fuggevole, in un casolare poco distante vive una piccola comunità peruviana trattata con diffidenza dai contadini locali. Lavorano saltuariamente per la raccolta dei pomodori e per la vendemmia, festeggerà con loro prima di affrontare un futuro confinato in meno di cinquanta metri quadri, senza neppure un fazzoletto di terra.
Tre giorni per organizzare tutto dovrebbero bastare, menu compreso. Ha le idee chiare, ogni portata verrà consacrata alla grossa pancetta che si rifiuta di andare in città. Per prima cosa raggiunge il vallone dove vivono libere una ventina di faraone. Dormono sugli alberi, non si fanno avvicinare, riconoscono solo la sua voce. I gesti comuni assumono un nuovo significato, è come ritrovare la complicità con qualcosa che si conosce bene. La vigilia prepara i tagliolini. China sulla tavola infarinata, le mani immerse nella pasta, sposta il peso del suo corpo da un piede all’altro a ritmo cadenzato, da tempo non ritrovava una confidenza così intensa con il movimento dei suoi fianchi.
Poco prima delle dodici del giorno fissato, mentre si occupa dei preparativi, sente bussare timidamente. Un variopinto mazzo di fiori di campo nasconde in parte il naso schiacciato di un’adolescente che si offre di aiutarla, sa adornare la stanza con festoni di carta crespa, suo fratello suona la chitarra e più tardi si potrebbe ballare. Armida è una donna di poche parole, preferirebbe restare sola ancora un po’, ma lo sguardo della ragazzina le fa automaticamente abbassare il mento in un cenno di assenso. La tovaglia più allegra trovata in fondo al baule è una festa di papaveri. La liscia con una mano, poi sistema piatti e posate. Lunghe falde di peperoni adagiate su un vassoio ovale sembrano riposare in attesa di un grande evento. Sono stati a bagno in un barile col suo prezioso aceto. Lo stesso vale per le cipolline. Il profumo del pane cotto nel forno a legna procura un lieve capogiro alla giovane ospite di cui ignora il nome. Glielo chiede, si chiama Jacinta. Quando porta in tavola due piatti colmi di salumi, la ragazza con un uhmm prolungato inspira come se volesse consumare tutta l’aria della stanza.
«Tieni pane e coppa! Da piccola, se mi sentivo poco bene, la mamma me ne passava una fetta senza farsi notare dal resto della famiglia. Aveva ragione sai, poi saltavo come un grillo.»
Alle dodici e trenta arrivano gli altri. Siedono intimiditi intorno all’ampio tavolo di legno massiccio. Armida provvede a colmare lo spazio al centro con la portata d’onore che occhieggia complice da un enorme vassoio rotondo, fa venire l’acquolina in bocca soltanto a guardarla. Gustano questa delizia in silenzio, un silenzio gentile. Poi il più piccolo dei ragazzi ficca la faccia tanto vicina al piatto da temere che una fettina possa restargli attaccata al naso e lancia un gridolino di gioia.
Armida si assenta giusto il tempo per far venire a galla i tagliolini e spadellarli in un sughetto di piselli e pancetta. Il sapore dei legumi appena sgusciati le è familiare, la fragranza perdura sulle sue labbra, ha preso l’abitudine di infilarsene in bocca una manciata tra un lavoro e l’altro.
Toglie dal forno i bocconcini sfrigolanti di faraona. La pancetta che li avvolge è croccante, l’interno è morbido e succoso. Il profumo di buona carne arrostita alla perfezione è più di una tentazione! Abbondanti manciate di insalatina fresca, raccolta con piccole carezze delle dita per non sciuparla, sono un contorno che dà una giusta nota di freschezza. Le portate si succedono sulla tavola. La padrona di casa è raggiante e serve, senza lesinare, il suo rosso frizzante quel tanto che basta per purificare l’alito con la spuma evanescente Ci si fa capire in un buffo linguaggio misto, un po’ sgrammaticato, ma gradevole. La mamma di Jacinta si esibisce nella spassosa descrizione di una vicina arrogante e presuntuosa. Armida sorride, uno di quei segnali che ci mandiamo per comunicare che siamo a nostro agio. Prova un’ondata calda di sollievo, vuole dire la sua, spiegare come ha cucinato le pietanze, lo fa in dialetto piacentino scandendo le parole convinta di farsi capire meglio. Prima di gustare i dolci, si decide tutti insieme di concedere una tregua agli stomaci ormai saturi. Felipe prende la chitarra, la sorella inizia a danzare mentre le mani dei commensali battono il ritmo. Ha la musica nel sangue la ragazza, Armida la osserva e inventa passi, con il marito era solita ballare il liscio nelle sagre paesane, le sue dita si muovono in cerchi lenti come se avesse davanti a sé tutto il tempo del mondo.
Più tardi fa una scappata in cucina, anche se più nessuno ha appetito la crostata devono assaggiarla, dalle prugne bionde raccolte sugli alberi che costeggiano il fossato, strappate all’ingordigia delle api, esce una marmellata senza uguali.
L’orologio batte le sei quando Armida offre il liquore alle bacche di pruno selvatico, una sua creazione particolarmente popolare tra i vicini che da anni le chiedono la ricetta ricevendo come risposta un’alzata di spalle. Lo serve in bicchierini di cristallo che si perdono tra le dita nodose degli anziani. Il capofamiglia si accarezza i baffi appagato, non aveva mai goduto di una siesta così riposante, la nostalgia della sua terra per il momento sembra accantonata. Ride di gusto scrollando la testa dai capelli bianchi arruffati, poi si rivolge alla padrona di casa.
«Ancora un goccetto querida? È digestivo.»
È vero, non può negarlo, però è più forte di quello che sembra. Così aromatico e profumato pare una cosa per signore, ma può ubriacare senza farsene accorgere. Armida seduta accanto a Manuel, si asciuga il viso con il grembiule. Si sente leggera come quando ballava la polka con il suo Artemio. Tutti i timori e gli interrogativi che fino a qualche giorno prima la soffocavano le paiono stupidaggini da donnetta noiosa.
Le risate dei ragazzi usciti in cortile a fare quattro salti salgono al cielo, dentro la sala le chiacchiere si fanno animate, ci si ferma ogni tanto per riprendere fiato e infilare qualcosa di gradevole tra le labbra. Oggi il mondo termina al cancello in legno che separa la cascina dalla strada che porta in paese.