Un altro bel racconto per “La gaia mensa”, il concorso letterario di Villa Petriolo edizione 2010.
Rosalba Perrotta è nata a Catania ed abita a San Gregorio (CT). Insegna Sociologia alla facoltà di Scienze politiche di Catania. Rosalba è autrice dei seguenti libri:
Andante con brio, Melquìades, Milano, 2004;
Vita candita, Perrone, Roma, 2006;
La mia allegra e romantica famiglia, Barbera, Siena, 2008.
Per La gaia mensa ci regala “Risotto agli asparagi con Belzebù”.
Buona lettura!
Racconto “Risotto agli asparagi con Belzebù” di Rosalba Perrotta
Fuori c’è freddo e piove. È sera, ed è il mio onomastico. Nessuno che mi faccia gli auguri, in questa città dove sono arrivata da poco e dove non conosco nessuno.
Me ne andrò a letto e, avvolta nel mio piumone, guarderò il film su Rete quattro: questa sera c’è Rosemary’s baby. Ma prima voglio un risotto con le punte di asparagi. Sì, voglio un bel risotto cremoso, per darmi conforto e riscaldarmi. Già me lo sento in bocca: dolce e amarostico. Riso, vino, brodo, parmigiano burro e cipolle li ho già… mancano solo gli asparagi.
Subito al supermercato, prima che chiuda! Sono raffreddata, ma non fa nulla: giaccone imbottito, grande ombrello da portiere d’albergo, la borsa e via.
Il supermercato è semideserto. Vago alla ricerca dei miei asparagi… Oh, ecco il vassoietto! Proprio lì: in alto, accanto ai porri e agli spinaci. Gli steli, tenerelli e smeraldini, sono pochi, ma vivo da sola e basteranno. Perché li hanno messi così in alto! Allungo un braccio.
Un braccio più lungo del mio se ne impadronisce.
Questo non ci voleva.
“Facciamo uno stelo per uno?” scherzo. Io il risotto lo voglio, e lo voglio con gli asparagi. Oggi è il tredici dicembre: Santa Lucia. No. Non può privarmi degli asparagi il giorno del mio onomastico.
Il padrone del braccio mi guarda con occhi di brace. Strana persona: alto, pizzetto nero e mantello rosso. Ditemi voi se si va in giro conciati da Belzebù per depredare povere donne inermi dei loro asparagi! Asparagi che si sono conquistate correndo nella pioggia e nel gelo, e pure il giorno del loro onomastico… ditemi voi.
“Facciamo uno stelo per uno?” ripeto sarcastica.
“No.” Risponde Belzebù.
Cerco di impietosirlo, vediamo se cede: “Ma devo fare il risotto con gli asparagi, devo proprio farlo…”
“Anche io” risponde lui laconico, e aggiunge mentre si allontana: “È essenziale: fa parte del rito” (strano personaggio, che sia un po’ folle?). Il mazzetto imprigionato nel cellofan, resta nel suo carrello; in cima a confezioni di fegato sanguinolento, pagnottine croccanti, bottiglie di spumante e salatini assortiti.
L’uomo dal rosso mantello sosta alla cassa per pagare (tiene i soldi in un sacchetto di velluto), poi varca la soglia e scompare nel buio.
È assurdo cercare asparagi in una strada cittadina, lo so benissimo, ma io guardo lo stesso. E proprio lì, sotto l’ippocastano, ecco il vassoietto con gli steli color smeraldo. L’ha perso! Peggio per lui. Il destino è giusto, talvolta. Ghermisco gli asparagi, li nascondo in borsa e mi precipito a casa.
Un bel risotto in una fredda sera di dicembre, che c’è di meglio nella vita? Immagino il profumo della cipolla che appassisce nel burro…
Le scale le faccio di volata, giro la chiave e mi affretto lungo il corridoio.
La mia cucina è stracolma di gente.
Donne seminude, uomini in frak, luccichio di gioielli, e festoni rossi bordati di nero.
Presto, il portiere! E che mi spieghi chi diavolo li ha fatti entrare.
Il Diavolo mi ferma; e con sorriso da grande seduttore mi offre i salatini.
Belzebù?! Mi sono presa l’influenza e ho il delirio? Non dovevo uscire con questo freddo.
Fuori dal supermercato, il signore dal mantello rosso sembra simpatico. E da quando ho recuperato il vassoietto non ce l’ho più con lui. Belzebù mi chiede gli asparagi e li porge a un cuoco dall’enorme cappello che armeggia ai miei fornelli. “Lucia – mi comunica poi con un sorriso, ovviamente mefistofelico – è il tuo onomastico. Ed è pure il mio, che mi chiamo anche Lucifero. Te l’hanno insegnato al catechismo, spero.”
Lucifero? Ma veramente!? Provo un senso di vertigine e “Auguri”, biascico.
“Oggi si celebra il Solstizio di inverno, abbiamo un po’ anticipato la data per farla coincidere con la mia festa. Ne ho diritto, d’altra parte, in quanto Signore delle Tenebre. Il rito quest’anno avrà luogo nella tua cucina. Hai scelto tu il primo piatto; e, alla fine, hai visto, ti ho pure lasciato la soddisfazione di portare gli asparagi.”
“Grazie…”, balbetto.
“Non godo, purtroppo, di buona stampa ma, checché se ne dica, il mio cuore è tenero. Sono un buon diavolo, in fondo… e talvolta anche un povero diavolo. Spero te ne ricorderai, in futuro, quando sentirai parlar male di me.”
Una festa per il Solstizio d’inverno? nella mia cucina?… Ma che buon odore di soffritto!… Ma a Belzebù devo dargli del tu o del lei?
Forse è meglio il lei: è simpatico però mette soggezione.
“Perché giusto a casa mia?”, “Estratta a sorte, dice?” Io?! Io che non vinco neanche a tombola!
Vivo in una casa antica e la cucina è grande come un saloncino, i convitati però ci stanno a malapena. Sulla tavola: tovaglia nera, lunga fino a terra, piatti di porcellana rossa e posate d’oro. Intorno alla tavola: ospiti in abito di gala, diademi tempestati di smeraldi e cascate di perle…
Menomale che stamattina ho cambiato gli asciugamani del bagno.
Candele color liquirizia dovunque, e odore di zolfo che si fonde col profumo stuzzicante del risotto.
C’è uno strano seggio, accanto al mio frigorifero (menomale che non perde più acqua), Belzebù si asside e il rito comincia. Fa il suo ingresso una divinità dall’aspetto egizio con un grande disco di rame. Tutti la invocano: “Osiride!” (be’, certo, Osiride col solstizio c’entra: è il dio del sole, l’ho studiato in terza elementare) Osiride prende il Sidol dal mio armadietto e lucida il disco; vi sparge sopra il ghiaccio tritato del mio freezer (ghiaccio simbolo dell’inverno?), e lo consegna a Belzebù.
Belzebù si erge in tutta la sua notevole statura, fa dardeggiare gli occhi di fuoco, e invoca:
Solstizio d’inverno, d’inverno Solstizio,
nel Ciel dell’Inferno sorridi propizio.
Poi va alla finestra, la apre con gesto solenne, e scaglia nel buio la ruota lucente.
Il disco fende la notte, e scompare. Tutti gridano “Papé Satàn Aleppe!” (conoscono Dante, penso, gli studi classici servono sempre).
Ha inizio la cena. Due baiadere discinte (fortuna che il riscaldamento è al massimo) serpeggiano intorno e non si stancano di riempire i piatti dei convitati. La pentola è la mia pentola, di dimensioni normali, ma il risotto non finisce mai: più colmano i piatti e più ce n’è.
“Un’altra cucchiaiata!” “Ancora”. “È divino”.
Divino? mi chiedo, forse questa non è la parola giusta.
“Proprio una tentazione irresistibile”. “Un vero peccato di gola…”. E qui siamo di certo più in tema.
Poi il fegato che sfrigola sul fuoco polarizza l’attenzione. Le baiadere lo sistemano in vassoi giganteschi e lo servono agli ospiti: “Un’altra porzione!” “Sì, un’altra”… e anche le ceste di panini croccanti sono prese d’assalto.
Infine, il brindisi. (Ma da dove sono usciti tutti quei calici?)
Tintinnio di cristallo. E bollicine inebrianti. E voglia di ridere, e di ballare, e di cantare, nella mia cucina tappezzata di rosso e di nero. Sì di cantare. Gli ospiti intonano l’inno a Lucifero, su ritmo di samba (Belzebù Satàn Olé…). Mi sembra di essere dentro un vortice, all’interno di un caleidoscopio sonoro…
Ma all’improvviso tutto si blocca.
Belzebù fa ruotare il mantello rosso, mi fissa con gli occhi di brace, e grida tre volte con voce tonante: “Auguri a Lucia!”.
Poi uno scoppio, un lampo. E tutto scompare. Lui, le belle baiadere, la tovaglia nera, gli ospiti in abito di gala…
La mia cucina è di nuovo la solita cucina, in ordine: c’è solo la pentola del risotto da lavare. La ripulisco col cucchiaio di legno, la riempio d’acqua per evitare che si incrosti, e la lascio nel lavandino. Sono troppo stanca, meglio andare a letto. Ma niente film stasera: la testa mi gira, le tempie battono e la fronte scotta. La febbre non me la misuro (non so dove sia il termometro) ma di certo supera i quaranta…
È stato comunque un bell’onomastico… No. Non racconterò a nessuno quel che è successo: chi potrebbe mai credermi?