La Germania e la sindrome della “piccola economia aperta”

Creato il 07 novembre 2013 da Keynesblog @keynesblog

L’Eurozona è diventata un esportatore netto maggiore della Cina – grafico dal blog di P. Krugman

di Francesco Saraceno da Il Sole 24 Ore

Nel suo ultimo rapporto semestrale sulle politiche valutarie, il Tesoro americano ha per la prima volta esplicitamente criticato i surplus commerciali tedeschi, mettendoli sullo stesso piano di quelli cinesi come fattori di destabilizzazione dell’economia mondiale. Nell’ultimo decennio la crescita di Cina e Germania, i due maggiori esportatori del mondo, è stata trainata dalla domanda estera.

Il loro crescente surplus commerciale ha fatto da contraltare al deficit americano, contribuendo quindi agli squilibri globali che hanno indebolito l’economia mondiale negli anni precedenti alla crisi. Ciononostante, negli ultimi anni i due Paesi sembrano perseguire strategie opposte.
Fin dai primi anni del secolo la Cina aveva mostrato la volontà di far evolvere il proprio modello di sviluppo, con l’introduzione nei piani quinquennali di innumerevoli riferimenti alla necessità di ribalanciare la crescita dando maggior peso alla domanda interna. Questi riferimenti sono rimasti sostanzialmente lettera morta fino all’esplodere della crisi, che certo ha avuto effetti ambigui. Da un lato la Cina è stato uno dei primi Paesi ad annunciare un faraonico piano di rilancio, superiore al 10% del Pil. Dall’altro non ha resistito, come la maggior parte dei Paesi, a misure più o meno apertamente protezioniste, e a tentativi di manipolazione della propria valuta. Nel complesso però il Paese è riuscito a compensare l’inevitabile riduzione dell’export dovuta alla crisi con un aumento della domanda interna. Il forte aumento dei salari iniziato nel 2011 segnala che le autorità cinesi sono coscienti del nuovo squilibrio che affligge l’economia, l’eccesso di investimento, e cercano di porvi rimedio aumentando reddito e potere d’acquisto dei consumatori.
I dirigenti cinesi sembrano quindi coscienti del ruolo rivestito dal loro Paese nell’economia del ventunesimo secolo. Essi hanno compreso che la transizione da economia emergente a sviluppata deve necessariamente passare, tra l’altro, attraverso una minore dipendenza dalle esportazioni. La lezione sembra evidente: una grande economia non può dipendere, per la propria prosperità, dalla crescita del resto del mondo. Anche il dibattito sulla riforma del sistema di welfare cinese, negli scorsi anni, ha più volte evidenziato il bisogno di ridurre l’incertezza delle famiglie cinesi, e quindi il loro risparmio precauzionale. Insomma, il processo di riequilibrio è lento e incerto, ma sembra una delle linee guida della politica economica cinese di questi anni.
E la Germania, in tutto questo? La strategia è opposta. La “dottrina di Berlino” si basa sulla compressione della domanda interna (pubblica e privata), su di una competitività basata sulla qualità, ma anche sulla compressione di prezzi e salari, e su una crescita trainata dalle esportazioni. Il successo di questa strategia negli ultimi anni è innegabile. Le esportazioni tedesche erano il naturale complemento degli eccessi di spesa della periferia dell’Eurozona e degli Stati Uniti. La spesa altrui ha così sostenuto la crescita della Germania che inoltre è progressivamente diventata il grande creditore d’Europa. Questa posizione, e naturalmente la sua dimensione, le hanno in seguito consentito di dettare le regole del gioco all’Eurozona in crisi. Il fiscal compact che impedisce ogni politica fiscale discrezionale, l’austerità e la deflazione imposte ai paesi in crisi, l’accento sulle riforme strutturali,rispondono tutti alla volontà di generalizzare il modello tedesco di crescita trainata dalle esportazioni. È rivelatore che Angela Merkel, riconoscendo a malincuore che l’austerità non ha portato i frutti sperati, non sia stata in grado di suggerire altro, in alternativa, che una rinnovata enfasi sulle riforme strutturali e sulla competitività. L’espansione della domanda interna non è stata e non è un’opzione.
Anche prescindendo dagli effetti perniciosi dell’austerità sull’economia europea, e dal fatto che essa aggrava le divergenze (anche in termini di competitività) tra centro e periferia dell’Eurozona, ci sono almeno due problemi di natura più fondamentale nel modello tedesco. Il primo è semplicemente di natura contabile. Il saldo commerciale a livello globale è nullo per definizione, e il commercio interstellare non sembra ancora un’opzione realistica… La “virtù” della formica tedesca può continuare solo se continuano ad esistere delle cicale, in Europa o altrove, che vivono al di sopra dei loro mezzi. Non si può essere tutti virtuosi allo stesso tempo; un problema non da poco, per un modello economico che si intende generalizzare.
Il secondo problema invece è di natura politico-economica ed è il più serio. Puntando su di un modello di crescita trainata dalle esportazioni l’Europa rinuncerebbe ad essere padrona del proprio destino. La Germania sembra intrappolata in una sorta di “sindrome del piccolo Paese”, accontentandosi di proporre ai propri partner europei di salire sulle spalle oggi dell’America, domani della Cina, e chissà di chi altro dopodomani. L’incapacità di provvedere autonomamente al proprio benessere avrebbe poi consequenze politiche e strategiche evidenti. La rinuncia a sedersi al tavolo dei grandi avrebbe un costo politico incalcolbabile, le cui avvisaglie si sono viste già nella crisi siriana.
La differenza con l’ambizione, la preveggenza e la determinazione della leadership cinese è abissale.

(2 novembre 2013)


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