15 LUGLIO – Gli applausi sciolti della rigida cancelliera Angela Merkel e la gioia della berlinese Porta di Bradenburgo dicono molto più di mille parole. Dopo ventiquattro anni – dopo quell’ultimo trionfale rigore battuto da Brehme all’Olimpico di Roma – all’Estadio Jornalista Mario Filho, noto ai più come “Maracanà”, la Germania piegando l’Argentina sale sul tetto del mondo. Ma quanto vale per i teutonici questo trofeo? Tanto, tantissimo, probabilmente niente che possa essere volgarmente calcolabile. Quella alzata al cielo festante di Rio de Janeiro da Philpp Lahm è la coppa più bella in assoluto, la prima di un popolo unito e forte, dopo le tre precedenti conquistate quando il Paese era ancora diviso e spaccato in Ovest ed Est dagli sconvolgimenti postbellici, e l’ultima di Miroslav Klose, leone di mille battaglie. Inoltre, con questa si arriva a quota quattro, numero dal significato tutto particolare per i tedeschi, che in questo momento eguagliano gli eterni rivali italiani. Non lo si prenda sottogamba. Senza contare il sapore di un’impresa finalmente compiuta non solo dagli undici di Loew, ma da tutta l’Europa: mai una nazionale del Vecchio Continente era riuscita a tornare vincitrice dalla lontana America e solo il Brasile nel lontano 1958 riuscì a far bottino pieno oltreoceano, in Svezia. Ma soprattutto, quella coppa d’oro massiccio è così bella e preziosa perché frutto di un progetto lungo quasi dieci anni su cui la Germania, e non solo la Nazionale, ha lavorato sodo, puntando sulla valorizzazione dei giovani e dei vivai, sull’inserimento di coloro un tempo apostrofati come “figli di immigrati” e la creazione di un gruppo sapientemente amalgamato dal tecnico Joachim “Jogi” Low a partire da “Austria-Svizzera 200o”, dopo aver fatto da vice a Jurgen Klinsmann nel 2006, nel mondiale giocato in casa.
E’ una vittoria costruita, sudata e meritatamente conquistata quella di Rio, dopo una partita giocata sul filo del rasoio contro i rivali argentini, beccati dal pubblico locale conscio della superiorità tedesca. Una superiorità che però non si è subito resa manifesta con una preponderante goleada. No, perché se si sintetizzasse il risultato con un banale “ha vinto il più forte”, sarebbe mostruosamente riduttivo, specie se le quattro occasioni più ghiotte sono state proprio per l’Albiceleste, rea di non averle fatte fruttare e di essersi cullata sugli spunti di un Messi – Pallone d’Oro del Mondiale – lontano dal vero Messi. Allora è meglio dire “ha vinto la squadra che ha fatto meglio”, perché “fare meglio” significa fare le cose giuste nei momenti giusti, contenere la partita, fare i cambi opportuni, resistere sino a quattro minuti dal 120° e creare le azioni che valgono tutta la vita di un calciatore: Schurrle con la sua incursione ha proposto, Mario Goetze con il suo stop di petto e il suo sinistro da campione ha disposto.
“Il cielo è azzurro sopra Berlino” urlavano noi otto anni fa, ma ora il cielo della capitale è d’oro, come la coppa che per i prossimi quattro anni dimorerà nella terra dei campioni.
Gianmarco Cossu
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