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La Giordania nel GCC: reale innovazione o semplice restyling?

Creato il 05 febbraio 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Elisa Gennaro

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Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), organizzazione nata negli anni Ottanta al fine di creare uno spazio economico comune ai sei Paesi aderenti, petro-monarchie con forme politico-sociali del tutto simili tra loro, potrebbe oggi attraversare una transizione da realtà economico-finanziaria ad organismo politico-militare. La disamina della candidatura giordana al GCC aiuta a comprendere meglio la possibile metamorfosi e ci fa giungere molto vicini alla reale strategia dietro questa mossa.

Il mantenimento dello status quo politico, la conservazione del potere da parte delle famiglie regnanti influenti nei Paesi del GCC (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Arabia Saudita, ’Oman, Qatar e Bahrain), va assicurato rivedendo le priorità in agenda: sicurezza e alleanze che lo garantiscano ora sono in testa.

Le rivolte regionali con gli scontri in Bahrein e in Kuwait, i ripetuti campanelli d’allarme in’Oman, la scelta di intervenire in Siria, la storica rivalità tra questi Paesi e l’Iran sciita, hanno sollevato questioni di sicurezza e di difesa in seno al GCC, fino a questo momento impegnato esclusivamente in questioni di natura economico-finanziaria. A questo si deve aggiungere l’incertezza sulla prossime scelte statunitensi nella regione, che ha reso necessario rivedere gli equilibri complessivi giacché, se è affidabile la coalizione con gli USA per quanto riguarda la questione iraniana, la stessa sicurezza viene meno di fronte alle rivolte popolari che tanto terrorizzano le monarchie del Golfo. Con la caduta dello storico alleato Mubarak, infatti, gli USA sembrano interessati alle possibili evoluzioni derivanti dalle sollevazioni.

La storia dell’adesione giordana - Insieme al Marocco – che mai avrebbe fatto richiesta di entrare nel GCC – la Giordania resta l’ultima monarchia del mondo arabo fuori dall’organismo che alcuni commentatori politici definiscono “il Club del GCC”. Per lungo tempo era stato un desiderio di Re Hussein quello di aderire alla prestigiosa organizzazione del Golfo, ma puntualmente non esaudito perché il suo Paese era troppo instabile economicamente, non prometteva sviluppo e nessuno nel GCC aveva mai avuto interesse a tamponare i frequenti dissesti di bilancio.

In reazione ai ripetuti dinieghi, nel 1989 il monarca hashemita costituì un’altra organizzazione insieme a Egitto, ‘Iraq e l’allora Yemen del Nord (il Consiglio di Cooperazione Araba), che, tuttavia, ebbe vita breve sia a causa di un mormorato complotto da parte del GCC, sia per il sopraggiungere di altri eventi regionali come l’invasione irachena del Kuwait. Oggi il Re ‘Abdallah II sembra essere molto vicino a realizzare la volontà del padre, ma più che il suo personale carisma, sono gli eventi geopolitici ad aver creato le premesse perché sotto il suo Regno, la Giordania entri a far parte del GCC.

L’invito è giunto proprio dai sei Paesi del Consiglio e la notizia era stata resa pubblica a maggio 2010 quando era stata avviata una successione di riunioni al fine di valutare la membership giordana sulla base di considerazioni di natura economica. Sono state stanziate cospicue risorse – 2,5 miliardi di dollari per ristrutturare l’economia giordana – da investire nei prossimi cinque anni attraverso progetti di cooperazione. Per questo sono stati istituiti comitati ad hoc che tengono sotto osservazione l’andamento dell’economia hashemita e per fare in modo che il nuovo membro non diventi un peso per le monarchie del Golfo, ragione per cui Qatar, ‘Oman e Kuwait avevano posto delle riserve. Non si è decisa ancora la forma da dare a quest’adesione e, per ora, tale cooperazione viene realizzata bilateralmente.

Il Qatar finanzia la ripresa giordana attraverso progetti in settori quali energia salute e trasporto; Kuwait e UAE sono impegnati in progetti di energia alternativa ad ‘Aqaba, nella realizzazione di gasdotti e di impianti di desalinizzazione e nella costruzione di una rete ferroviaria di collegamento tra il Golfo e la Turchia per un valore di 100 miliardi di dollari di cui proprio gli Emirati sono i primi investitori.

Quali potrebbero essere i benefici per l’economia e il mercato del lavoro giordano davanti a questa prospettiva? – Impegnata a ridurre il deficit contro la garanzia di nuovi prestiti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) per 2 miliardi di dollari, la monarchia giordana resta in gran parte dipendente dagli aiuti esteri, anzitutto statunitensi, oltre che sauditi e qatarini. Allo stato attuale il debito ammonta a 366 miliardi di dollari, il tasso di disoccupazione è del 12% e continua a crescere.

Numerosi commentatori sostengono che a trarre maggior profitto da un ingresso nel GCC sarebbe proprio il mercato del lavoro, con l’abbattimento delle frontiere e un allentamento nel sistema di sponsorship che agevolerà la mobilità dei lavoratori. Tuttavia, il Paese è già un bacino di reclutamento per i Paesi del Golfo con 600 mila giordano-palestinesi professionisti presenti nei sei Paesi del GCC le cui rimesse contribuiscono alla formazione del PIL giordano per il 9%. Anche gli scambi commerciali tra Giordania e Paesi del Golfo registrano l’attivo, soprattutto quelli con l’Arabia Saudita.

Una reale e sostenibile ripresa economica giordana dipende da riforme politiche. E’ plausibile che i nuovi settori di investimento generati dalla cooperazione con il GCC andranno a rinforzare le politiche liberiste perché già ampiamente volute dal governo giordano – tra l’altro queste sono state spesso una precondizione posta dall’estero per ricevere finanziamenti. Quelle stesse riforme sono da tempo al centro del malcontento popolare e dell’opposizione politica che chiede la garanzia di un processo democratico inclusivo di tutte le rappresentanze.

L’esito delle recenti elezioni – Il risultato delle elezioni dello scorso 23 gennaio non ha apportato sostanziali modifiche alla composizione del Parlamento e i dati hanno indicato lo stallo politico che da tempo si vive in Giordania. Basti pensare che proprio a causa dell’impedimento di intervenire nella legge elettorale e per l’incapacità di garantire riforme politiche, in un anno e mezzo si sono alternati cinque Premier.

L’affluenza al voto del 56,7% (1.3 milioni di persone) ha riconfermato la maggioranza dei 150 seggi in Parlamento ai fedelissimi del governo, esponenti delle influenti famiglie tribali favorite dal sistema di voto singolo non trasferibile che permette di fare scelte molto particolaristiche (o personalistiche) più che una coalizione politica. Eppure, nonostante la sfiducia generale e la forza dell’opposizione che ha scelto il boicottaggio dell’intero processo (non solo Fratellanza Musulmana, ma anche la sinistra e i movimenti giovanili sorti in seno alle rivolte interne), i canditati sono stati 1.400 (numerosi indipendenti e altrettanti centristi) che hanno ottenuto appena il 25% del totale dei seggi.

Se anche in quest’occasione il regime giordano ha scelto di conservare lo status quo politico in casa per uno spirito di sopravvivenza, ora dovrà mettere in conto l’accresciuta insoddisfazione, e quindi un maggior vigore dell’opposizione, alle cui istanze, si presume, risponderà con indifferenza quando non si tratterà di ulteriori restrizioni.

La scelta di aggirare per l’ennesima volta la richiesta di riforme del sistema elettorale risponde alla volontà di restare in vita, aspetto che accomuna il regime giordano alle monarchie del GCC. A novembre scorso così si era espresso il Ministro degli Esteri giordano in occasione di una riunione del GCC in Bahrain. Il Ministro Nasser Judah aveva detto: “La Giordania è in linea con le posizioni dei Paesi del GCC e attraverso il dialogo politico saremo in grado di tutelare insieme gli obiettivi prioritari che ci accomunano”.

Se la Giordania non presenta nessuna delle condizioni di stabilità economico-finanziaria per entrare nel Club GCC, a quali obiettivi prioritari potrebbe aver fatto riferimento il ministro Judah? Il suo Paese ha rischiato spesso di crollare sulla scia delle istanze di giustizia sociale che hanno infiammato l’area mediorientale. Nel cuore delle rivolte arabe, la Giordania potrebbe implodere da un momento all’altro e quello di fresca chiusura elettorale è uno dei momenti politici maggiormente vulnerabili.

La notizia della possibile adesione nel GCC in Giordania è stata accolta con euforia da molti che vi hanno speculato sopra, ma i più si sono mostrati scettici perché consapevoli del gap economico con le monarchie del Golfo, oltre che – se si esclude il meccanismo di influenza tribale – per considerazioni di natura socio-culturale.

Un’affiliazione di questo genere ha fatto sorgere un’altra questione di rilievo quale il deterioramento dei diritti umani, delle libertà di genere, delle minoranze e della libertà d’espressione in conseguenza di un appiattimento su politiche ispirate all’ideologia wahhabita. Un simile rischio in Giordania è tanto più verosimile per via della composizione multietnica del Paese: Palestinesi, Iracheni e, oggi, Siriani.

Il senso della presenza giordana in un organismo geograficamente distante ha lo scopo quindi di rafforzare una coalizione di monarchie, di ampliare la base di consenso popolare, anche solo numerica, e di fare del Paese hashemita una barricata a tutela di interessi commerciali (la vicinanza con Europa) e della sicurezza del Golfo. Se si fa strada l’ipotesi di una strategia geopolitica di difesa del GCC che da statica diventi propositiva e di vigilanza, sebbene non ancora di aggressione, le conclusioni non possono tradursi che in un processo anti-democratico, come già sta accadendo in Giordania con riforme posticipate a oltranza, e in misure di sicurezza funzionali a garantire fedeltà.

Le difficoltà del decollo politico del GCC – La questione dell’ingresso giordano nel GCC da un lato svela una continuità negli interessi interni a forme di potere comuni, dall’altro fa emergere attriti tipici di simili poteri e rivalità di vecchia data. Si pensi al disaccordo sull’Unione del Golfo (fortemente voluta da Arabia Saudita e Bahrain), allo scetticismo di altri sulla moneta unica (da parte di ‘Oman e UAE) e al desiderio di leadership dell’Arabia Saudita che attualmente vive una sorta di guerra fredda con il Qatar mentre studia come contenere l’influenza iraniana.

La diffidenza reciproca che si respira nel GCC fa emergere un grado di immaturità politica di queste realtà che da sempre sono spalleggiate dalla consulenza dell’Occidente nelle linee di politica estera e di difesa. Senza un’emancipazione politica, anche solo intesa in senso di autonomia, qualunque progetto di natura economica o militare resta il proposito di pochi.

E’ pur vero che l’esempio dell’unione monetaria europea non incoraggia i Paesi del GCC ad adottare una moneta unica; così come non è consigliabile avventurarsi in un’impresa simile alla NATO nel momento attuale, almeno non prima che il gioco delle alleanze nella regione non sia chiarito. Anche da questo ultimo punto di vista, la Giordania nel GCC non sarebbe in grado di contribuire.

Ciò che conta qui è che la decisione di accogliere la Giordania nel GCC non è coerente con un atteggiamento per cui nessuno pare voler cedere parte della propria sovranità, condizione necessaria per creare qualcosa che possa definirsi Unione, rimettendosi alle decisioni di un’autorità sovrastatale sulla scia dello spazio comunitario europeo. Oltreché per scarsa esperienza politica, nel GCC le ragioni derivano dalla mentalità e dal meccanismo di Policy Decision-making delle famiglie influenti che preferiscono interagire all’interno di una struttura fragile piuttosto che perdere il potere elitario.

Da un’analisi degli elementi strutturali (politica e difesa) non sembra che il GCC intraprenderà alcuna grande sfida nell’immediato. Per ora si pensa ad allargare il “Club” invitando la Giordania, il cui regime conosce bene “per costituzione” le ragioni politiche delle monarchie del GCC. Relazioni internazionali, sicurezza e difesa richiedono flessibilità e questa non è propriamente una qualità di poteri e mentalità conservatori che limitano i diritti dei propri cittadini privati di esprimere il proprio consenso e di partecipare al processo politico, o che si servono della legalità internazionale al fine di preservare e tramandare pratiche di governo inter-familiari.

Finora l’esperienza politica del GCC in qualità di “Unione” ha dimostrato equilibrio (nell’accezione di unità) limitatamente alle circostanze in cui i suoi componenti hanno condiviso la percezione di minaccia e non ancora perché proiettati verso una politica paritaria per l’emancipazione di 42 milioni di cittadini. Il quadro è quello di un vuoto politico nel quale, aderendovi, la Giordania rischia di precipitare.

* Elisa Gennaro è giornalista pubblicista e Dottoressa in Lingue e Civiltà Orientali (Università “La Sapienza”)


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